Blog – Un articolo dove si chiama “uomo” uno schiavo
Se c’è una cosa buona del dolore è che unisce. Non tutti hanno i soldi ma tutti soffrono. Non tutti hanno la salute ma tutti soffrono. Non tutti sono belli ma tutti soffrono. La sofferenza toglie le divise, toglie le maschere, azzera le distanze, toglie le insegne distintive. È la sola cosa buona.
Davanti al dolore siamo nudi, vulnerabili e ci si riscopre della stessa razza anche se non della stessa classe sociale: razza umana. Lo vediamo nei funerali di famiglia: ci si abbraccia anche tra parenti che non si parlavano più da anni. Quando arriva la livella, come la chiamava Totò, poveracci e nobili sono uguali, sono vicini. Se togli al dolore l’amore involontario ma naturale che crea, il dolore diventa bile: questo ho pensato di fronte a quei commenti. Diventa come un gas compresso che fa saltare il tappo e tutto esplode, spruzza, macchia.
La quotidianità di fatica e di giorni pesanti salta via ed esce la rabbia, l’insofferenza verso chi è uguale a te o a come sei stato ma non lo riconosci più. E quando in un uomo non riconosci un uomo come te, è come se fossi cieco davanti ad uno specchio: non ti vedi. Forse per questo che si arrabbia trova quel tempo e quella voglia di scrivere commenti che non ha chi condivide.
Queste lunghe considerazioni da semaforo rosso sotto il sole e in mezzo al traffico, mi venivano in mente mentre pensavo che ero contento di aver condiviso i miei pensieri sulla morte di quel bracciante di ieri Mohamed e per Asserid: di aver trovato tanto riscontro.
È per me un piacere riuscire ad esprimere un sentire comune. Ma certi commenti, a volte non proprio le singole parole, ma in generale i toni rabbiosi di alcuni, mi hanno colpito. Cosa si è rotto nella catena dei nostri sentimenti? Quella catena che tiene unito un uomo all’altro anche se non si incontreranno mai ma basta una foto per riconoscere un altro me?
Cosa e dove e quando si è spezzato qualcosa in quella catena che fa dell’umanità una famiglia umana, responsabile e solidale?
Il dove, è in questo caso, un campo di pomodori della nostra penisola; il quando sono questi giorni di caldo estremo e una giornata di lavoro nei campi con questo caldo.
Il cosa si è spezzato è più difficile.
Se un morto riverso in un campo ti suscita ira perché – spizzico qualche commento qua e là – tanto pure gli italiani muoiono così, anche i muratori muoiono, e lui perché non è rimasto a casa sua? perché se non era lui era qualcun altro visto che arrivano a migliaia e sbarcano ovunque, perchè se tanto eri in regola morivi uguale, mi sembra un discorso disumano non da uomini.
i discorsi degli uomini, alla fin fine, sono semplici: se ci sono vittime, ci sono carnefici. Se ci sono vittime extra comunitarie non in regola, la regola non cambia, ci sono carnefici.
Ci sfugge la nuova colonizzazione.La nuova subdola nuova colonizzazione. La schiavitù di oggi è uguale per le conseguenze, per come va a finire: uomini come cose e senza via di uscita, nessuna possibilità di scelta e ogni tanto ci scappa un Mohamed. Ma è diversa per come inizia.
I futuri schiavi pagano i traghettatori, gli scafisti
Nessuna catena di ferro ai piedi ma una catena di debiti da colmare e il desiderio di fuggire da una patria che non è nè madre nè matrigna ma tomba.
Ma davvero c’è bisogno di dircelo che sono schiavi uomini che lavorano a 2 euro l’ora?
Il fatto che gli italiani anche lo hanno fatto o lo fanno, toglie orrore a quanto accade? A quanto ci accade?
Chi non ama i toni che uso forse potrebbe scrivere un articolo diverso ma lo scriva. Scriviamolo tutti che se un uomo muore in un campo dove lavorava dall’alba con una paga da fame per sfamare sé stesso e una famiglia ostaggio di guerre e fame dall’altra parte del mare, quell’uomo ha diritto almeno ad un articolo dove viene chiamato con il nome che gli spetta: uomo.