
Le Lettere dal carcere – Dialogo tra un ergastolano e una sociologa
Oggi ho letto una bella frase di L. Ron Hubbard che mi ha fatto riflettere:
“Non ammetterò mai che vi sia sulla terra un uomo cattivo malvagio per natura”
Sono stato un bambino difficile. Un ragazzo poco presentabile. Un uomo con una storia dura. E un ergastolano con un fascicolo pesante come un macigno sulle spalle, che da ventiquattro anni ininterrotti gira per tutti i carceri d’Italia.
Credo che l’unica cosa che non manca in carcere è il tempo. Ed io lo riempio pensando, studiando e leggendo. Che altro posso fare? In questo periodo, per prendermi la terza laurea, (sono entrato in carcere con la quinta elementare) sto preparando l’esame di “Sociologia della Devianza” con la professoressa Francesca Vianello, ricercatrice in sociologia del diritto, della devianza e del mutamento sociale, presso l’università degli studi di Padova. Fra alcuni libri che mi ha dato da studiare c’è anche il suo: “Il carcere”. Sottotitolo: “Sociologia del penitenziario”(Carocci editore).
Senza nulla togliere al contenuto, quello che mi ha colpito di questo libro è la sua copertina verde, forse perché quello che manca più di tutti in carcere è questo colore.
L’altra notte non riuscivo a prendere sonno e invece di contare i carceri dove sono stato, come faccio di solito per prendere sonno (piuttosto di contare le pecore), mi sono messo a discutere con Francesca (o se preferite con il suo libro) a voce alta.
Il carcere addirittura è responsabile di un aumento dei tassi di recidiva, che rischia di funzionare, secondo un’espressione divenuta di senso comune, come “scuola di crimine”.
Credo che il carcere sia un luogo di guerra permanente. E non ci sarà mai pace nel mondo fin quando esisterà un territorio dove uomini tengono prigionieri altri uomini. Poi, è difficile, e sfido chiunque a farlo, a migliorare qualcuno, educare alla legalità attraverso la sofferenza della privazione della libertà. L’esperienza personale e quella dei miei compagni piuttosto mi insegna che la pena del carcere educa alla delinquenza e alla violenza. Il carcere dovrebbe essere un luogo aperto e più vicino al mondo libero, perché per educare le persone alla legalità e al rispetto delle regole è necessario che anche la legge e le regole siano rispettate dallo Stato. In galera invece è difficile distinguere il bene dal male e il carcere, soprattutto in Italia, non ti fa sentire in colpa, perché di solito ti calpestano il cuore e poi ti dicono che lo fanno per il tuo bene. E al prigioniero non è dato di scegliere. Forse anche per questo i detenuti si sentono come sacchi di immondizia buttati in una cella. Poi una volta fuori molti di loro si vendicheranno. Gli svedesi dicono che i detenuti di oggi saranno il vicino di casa di domani. In Italia invece sembra che il tuo reato sia più importante di te, a tal punto che ritengono giusto fatti perdere tutta la tua umanità.
Sta di fatto che, nonostante l’obiettivo continui a rivelarsi irraggiungibile (la deterrenza, la rieducazione, il reinserimento), il programma resiste tenacemente ad ogni evidenza empirica circa la profonda inadeguatezza della pena detentiva ad assolverlo. Perché?
Molti sono favorevoli al carcere perché non sanno di che cosa si tratti. Credo che se ci passassero qualche giorno, o se avessero qualche parente dentro, diventerebbero come gli ex fumatori: i più acerrimi nemici del fumo. Penso che i buoni hanno paura di scoprire che sono peggio dei cattivi. E fanno finta di non sapere che spesso c’è maggiore umanità in un uomo fuorilegge e poco istruito che in una persona perbene laureata e con la fedina penale pulita. E in tutti i casi i benpensanti dovrebbero giudicare solo gli atti malvagi che fanno le persone e non le persone, perché in noi c’è il bene e il male. E credo che stia anche a loro aiutarci ad tirare fuori l’uno o l’altro.
La produzione della delinquenza risponde ad una precisa strategia di dominio delle classi dominanti: essa serve a distinguere la criminalità dalla politica, a dividere al loro interno le classi lavoratrici, ad assicurare il rispetto per la legge e la proprietà privata che sta alla base dell’attuale sistema di dominio.
Spesso le persone perbene, che si mettono la camicia bianca tutti i giorni e vanno a messa la domenica mattina, e che non commettono nessun reato sanno essere a volte cattivi e malvagi, più dei criminali. E nessuno di loro si domanda perché le sezioni di Alta Sicurezza delle nostre Patrie Galere sono pienei di detenuti del sud e perché gli uomini del sud o sono operai o sono criminali, o tutte due le cose.
Il carcere ricorda continuamente al detenuto la precarietà delle proprie condizioni e la sua sottomissione alle decisioni altrui.
L’umanità esterna si ferma davanti alle pareti di un carcere. Dentro le mura di cinta il confine della legalità si sposta di continuo. E le garanzie e i diritti spariscono di continuo. Si chiede la prova non di ciò che il condannato ha fatto, ma di ciò che eventualmente farebbe in futuro. In questo modo scatta nei detenuti una rassegnazione che assomiglia a quello che regnava nella caverna del ciclope quando i compagni di Ulisse aspettavano impotenti ma tranquilli di essere divorati.
Carmelo Musumeci
Carcere di Padova, 2015
Diario di un ergastolano