Blog / Scritti segnalati dal blog | 16 Aprile 2015

Alberto Pellai – A proposito di (ideologia del) gender, II parte

Come accaduto a Pellai, anche sul nostro blog il suo primo articolo ha riscosso molto interesse. Pubblichiamo perciò il seguito. Alberto Pellai, oltre ad avere tantissimi altri titoli, è editorialista di Avvenire. Al fine di facilitare il dialogo sul blog, ho chiesto a Sandokan di tentare di compilare un piccolissimo glossario su questi argomenti a partire da quanto contenuto nel blog.

Il mio primo post dedicato a questo tema ha generato una reazione enorme. Lo hanno visualizzato più di 250.000 persone, lo hanno condiviso numerose migliaia di lettori e commentato più di 500 persone. Quindi, i numeri che avevo fornito come pre-requisito per continuare il dibattito e promuovere ulteriori approfondimenti sul tema sono stati tutti superati. Ecco allora un secondo post. Anche in questo caso servono circa 15 minuti per arrivare in fondo. Se non li avete fermatevi qui.
Nel dibattito che io stesso ho generato, ho avuto modo di constatare alcuni elementi che ricorrono continuamente.
In molti hanno voluto ribadire che di per sé non esiste un’ideologia del gender. Molti hanno contestato nel precedente post le mie frasi: “io non conosco l’ideologia del gender e personalmente come padre di quattro figli io non l’ho mai incontrata sulla mia strada” così come l’altra mia frase “così come l’ideologia del gender potrebbe fare male quando usata male e a sproposito, io penso che così anche l’ideologia di chi è contro l’ideologia del gender possa essere ugualmente pericolosa e dannosa”. Forse queste frasi non erano completamente chiare, e allora ci tengo a ribadire che per me non esiste un’ideologia del gender e che in generale, in educazione, le ideologie non servono a nulla e soprattutto rischiano di fare molti danni. Nei primi mesi della polemica sul “gender a scuola” ho cercato di capirne di più. Ho scoperto però che in molti casi ciò che viene chiamata “ideologia del gender” è qualche citazione tratta dal concetto di “gender studies” che è una disciplina presente da decenni in moltissimi curricola di studi universitari in tante nazioni del mondo. I gender studies, come mi ha scritto molto bene in una mail privata la dottoressa Elena Liotta (che ringrazio): “nascono storicamente e culturalmente in campo anglosassone, come area di studio e ricerca sulle donne, per ritrovare il rispetto di una diversità bistrattata e ignorata anche dalla storia. Oggi si è ampliato ad altre situazioni socio-affettive partendo dall’antico destino dell’omosessualità, riconosciuta o negata a seconda dei secoli e delle culture. Non si può ridurre un ambito molto ampio e vario e ricco di cultura definendolo erroneamente come ‘ideologia gender’ (io non ho mai sentito questa locuzione). Così facendo il messaggio perde competenza ed efficacia. Non esiste una ‘teoria del gender’! Non è un discorso chiuso, finito, ma in sviluppo, con tante diverse interpretazioni e pensatori. E si basa sul rapporto tra potere, autoritarismo, sistemi totalitari … democrazia. “.
Concordo con queste parole di Elena Liotta e confermo che, per ciò che ho compreso io dei “gender studies”, il tema al centro degli stessi non è l’annullamento delle differenze biologiche tra uomo e donna, bensì l’eliminazione di un “gender gap”, che da sempre propone alla donne una situazione di svantaggio sociale e relazionale, spesso fondata su un cumulo di stereotipi culturali e sociali che si auto-mantengono e si rinforzano a meno che non vengano messi in discussione e criticati dai processi educativi. Inoltre, è proprio attraverso i processi educativi che si può sin dall’età più precoce apprendere un nuovo modo di pensare al maschile e al femminile che non sia discriminatorio o svantaggioso per uno dei due generi. Questo avviene, però, nel riconoscimento delle differenze biologiche e non nell’annullamento delle stesse, come viene spesso detto da chi afferma che la “teoria del gender” mina alla base le certezze su cui da sempre uomo e donna si riconoscono come essere differenti e complementari.
Un’altra cosa che mi ha colpito molto nei commenti al post e nelle lettere private che ho ricevuto è la convinzione che i bambini sono bambini e che vivono un tempo della vita dove non è necessario precocizzare alcun genere di conoscenza e approfondimento sul tema della sessualità. Fare questa cosa, ovvero portare questo tema nella loro vita, significherebbe – per alcuni – rovinarne l’innocenza, anticipare la dimensione della sessualità in modo tale da “sporcare” la loro infanzia, traumatizzarli, insomma….fare loro del male. In questo senso, perciò, anche l’educazione sessuale – e a questo punto mi verrebbe da dire qualsiasi educazione sessuale – fatta a scuola diventa pericolosa, perché fa proprio questo: porta ad un’età troppo precoce contenuti che, in base a questa assunzione, non sono fase-specifici e che quindi non possono che fare danno a chi sta crescendo.
Ora è chiaro che io – che faccio questo di mestiere, ovvero mi occupo di educazione emotiva, affettiva e sessuale in età evolutiva – non posso condividere questa visione dei fatti. Sarebbe come dire: so che sto facendo un lavoro che è pericoloso e che fa danni. Invito tutti coloro che pensano così a guardarsi intorno: siamo circondati da immagini pornografiche, viviamo in una società ipersessualizzata e per quanto un adulto si sforzi di proteggere un figlio da tutto questo, non ci riuscirà mai. Soprattutto, ciò che mi colpisce, è quello che avviene non tra adulti e bambini, ma tra bambini e bambini. I quali, sollecitati da stimoli che li confondono o che li eccitano, non avendo a disposizione adulti competenti, spesso cominciano a fare “stupidaggini” tra di loro, a scherzarsi o provocarsi con allusioni, parole, contenuti e temi sempre più sessualizzati. Nessun figlio è indenne da questo. Ora, un figlio che si trova provocato, eccitato e confuso all’interno del gruppo dei pari, ha solo due possibilità. Gestirsi tutto questo in autonomia oppure chiedere aiuto ad adulti di riferimento. Ma se gli adulti di riferimento sono quelle persone che sostengono in modo molto fermo che ad un bambino non si deve “anticipare nulla” riguardo al tema della sessualità, perché è troppo piccolo, la conseguenza diretta è che quel bambino non si rivolgerà mai agli adulti di riferimento, perché da loro ha imparato che questi temi sono “tabù”. Si proprio così: “tabù”. Perché non c’è un momento giusto e un momento sbagliato. Non esiste un giorno in cui si può cominciare ad educare. La sessualità non parte da oggi, nella vita dei bambini. C’era già ieri e ci sarà sempre, anche domani e dopodomani. E questo vale sin dal primo giorno di vita. Presumo che molti degli adulti che stanno leggendo, si ricordino che cosa è successo a loro quando erano bambini, preadolescenti e adolescenti. La loro mente era piena di domande che avevano a che fare con la sessualità. Già a 9 o 10 anni questo è successo a molti di noi. Eppure, è molto probabile che quasi nessuno abbia fatto quelle domande o abbia provato ad approfondire il tema con gli adulti di riferimento. Il motivo: in modo implicito, i nostri genitori ci avevano insegnato che loro non avevano nessuna voglia di essere i “risponditori” dei nostri dubbi e quesiti sulla sessualità. Così, quasi nessuno di noi può dire di aver avuto genitori che siano stati un riferimento educativo in questo ambito. Mi capita spesso di incontrare genitori che non fanno educazione sessuale perché il loro figlio ancora non chiede nulla. Se domando: “quanti anni ha suo figlio?”, loro mi rispondono: “12, 13, 14 a volte addiritura 15 o 16”. Ma vi sembra possibile che un figlio di questa età non abbia nulla da chiedere? E secondo voi, dove ha imparato a non chiedere nulla? Chi gli ha insegnato che agli adulti è meglio non fare certe domande? La mia impressione è che tutto il mondo adulto, spesso, dietro ad una parvenza di preoccupazione educativa, si tuteli e si difenda dietro ai falsi miti di: “E’ troppo presto” e “I bambini sono bambini” semplicemente perché noi stessi, per primi, non abbiamo elaborato bene questa dimensione nella nostra vita e nel nostro percorso di crescita. E di conseguenza non ci sentiamo tranquilli, disponibili e sicuri nell’affrontare il tema con i figli. Tra l’altro, molti progetti scolastici – direi quasi tutti – vengono presentati ai genitori e queste riunioni sono sempre occasioni per discutere, dialogare, approfondire e generare un’alleanza tra adulti. Ultimamente sono diventate invece occasioni per scontrarsi e confliggere. Di questo, sono certo, i nostri figli non avranno alcun beneficio.
Come ho già scritto nel mio primo post, io non mi spavento di nulla. Non temo quello che c’è nel mondo fuori, perché credo e spero che i miei figli, qualsiasi cosa incontrino fuori – nel mondo – che li spaventa, disorienta o lascia pieni di dubbi e pensieri, poi vengano da me per condividerla e approfondirla. E questo posso dirlo a voce alta, mi succede spesso.
Vorrei che gli adulti in genere fossero meno spaventati dall’idea che portare questi temi a scuola sia pericoloso. E spesso siano anche fiduciosi e tranquilli del lavoro che facciamo noi educatori, psicologi e medici, spinti a questo non dal desiderio di fare del male, ma da quello di sostenere e proteggere la crescita. Nessuno di noi è perfetto e nessun intervento risolverà mai del tutto la questione. Ma vedere in classe un adulto, competente e autorevole che non ha timore dell’argomento e che lo sa affrontare in modo non ideologico, ma educativo, è una grande risorsa per i nostri figli. Sempre e comunque.
L’affermazione che solo la famiglia si deve occupare di questo a me sembra riduttiva e fuori luogo. Perché in realtà il resto del mondo se ne sta occupando, tranne – quasi sempre – la famiglia e la scuola. Le ricerche effettuate con gli adolescenti dicono che, secondo loro, le informazioni sulla sessualità sono arrivate nella loro vita soprattutto attraverso gli amici e i mass media. All’ultimo posto c’è la famiglia. E di questo dobbiamo imparare a prenderne atto. E nei mass media i nostri figli trovano quasi sempre il peggio del peggio. Tutti i giorni, al pomeriggio, un milione di nostri figli si sintonizza su un network radiofonico che trasmette un programma dove la sessualità è merce da barzelletta, dove ogni stereotipo omofobo e sessista viene messo in scena ogni singolo minuto. Dove le donne vanno scopate e gli uomini le trombano senza alcun altro genere di approfondimento. Ripeto un milione di persone ascolta questo programma ogni giorno per due ore per sei giorni alla settimana. Così come quasi un 13enne (ripeto 13enne) su due ammette di aver già visitato siti pornografici. Ecco di fronte a questi due esempi, vi invito a riflettere se davvero fare educazione sessuale a scuola sia uno spreco di tempo e di energie, o addirittura un modo usato da certi sedicenti esperti per sessualizzare precocemente il percorso di crescita. Noi psicoterapeuti vediamo sempre più spesso bambini delle elementari che visitano siti pornografici, preadolescenti che fanno sexting. E tutto avviene dentro a famiglie che si ritengono attente e competenti. La frase più frequente dei genitori che li accompagnano nello studio dello psicoterapeuta dopo aver scoperto cosa succedeva nella camera da letto dei figli connessi al compute è : “IO non me lo sarei mai immaginato che mio figlio/a stesse facendo questo genere di cose”.
Ecco, è bene che noi genitori impariamo ad immaginarci che i nostri figli stanno vivendo in un tempo molto complesso. Pieno di opportunità, ma anche pieno di sollecitazioni che non sono in grado di gestire. E che se qualcuno che fa questo di mestiere dice che l’educazione affettiva, emotiva e sessuale è uno strumento davvero necessario in questo contesto socio-culturale, sarebbe giusto imparare ad ascoltarlo e a verificare se davvero quello che dice ha senso oppure no. Invece troppo spesso, di questi tempi, ci si sente sotto processo dal primo momento. Io sono davvero rimasto colpito nel fare conferenze di fronte a persone che si sedevano su banchi sui quali venivano appoggiati testi della Bibbia e della Costituzione e poi contestavano il relatore a suon di citazioni di articoli di legge e di passaggi della Bibbia. Scusatemi, ma questo approccio è davvero screditante, perché chi fa interventi educativi non vuole agire contro nessuno e tanto meno contro Bibbia e Costituzione.
Credo che dietro a tutta questa fatica, ci sia la questione –mai risolta per tante persone – associata a come l’omosessualità viene pensata, analizzata e vissuta nella nostra società. Come padre penso che l’omosessualità non può essere né prevenuta, né educata. L’omosessualità quando c’è, c’è. Ho quattro figli e non c’è nulla che io possa fare per renderli eterosessuali, così come non c’è nulla che io possa fare per non renderli omosessuali. Ribadisco che, spesso, in adolescenza la domanda che molti si fanno sul proprio orientamento sessuale sia una domanda più che lecita e occorre che un ragazzo/a possa farsela in un clima dove gli adulti sanno stare sereni e sanno essere adulti per davvero. Può dare dispiacere che un figlio sia omosessuale, ma questo non toglie che quel figlio ha il diritto di essere ciò che è. E’ giusto pensare che, se io adulto e genitore mi sento sopraffatto e travolto dalla dichiarazione di mio figlio che si racconta omosessuale, io mi rivolga ad un adulto che ci aiuti tutti a fare chiarezza. E non che curi, ciò che curabile non è. Perché non stiamo parlando di una malattia. Dire queste cose però a molti fa paura. Ma forse il lavoro da fare è sulla paura che ci prende quando diciamo queste cose e non sulla soppressione, stigmatizzazione o falsa ideologizzazione delle cose che ci impauriscono così tanto.
Io non mi spavento di fronte a tutte queste sfide. Ho una vita personale e professionale che mi autorizza a non avere paura delle mie idee. E non ho alcuna ideologia da difendere.
Dopo il mio precedente post ho ricevuto decine di inviti a partecipare a manifestazioni, convegni, dibattiti. A firmare petizioni e scrivere articoli. Non ho risposto a quasi nessuno. Non accetterò nessun invito su dibattiti pubblici sull’ideologia gender. Perché già svolgo il mio dibattito personale su questa pagina e in ogni minuto in cui continuo a fare il mio lavoro. Lavoro che faccio da sempre. Probabilmente tra qualche giorno la cosa che farò è una lettera che invierò ai principali media nazionali, di tutti gli orientamenti. Non sono ancora sicuro di farlo.
Per deciderlo, ancora una volta verificherò quali reazioni genererà questo post. Che vi invito a commentare e condividere. Perché dialogare è il miglior modo per far vincere le idee e non alimentare ideologie pericolose.
Ho passato molto tempo a rispondere, durante le ultime due settimane a molte persone che mi hanno scritto in privato sulla mia mail. Ma ora non mi èn più possibile farlo. E preferisco che ogni dibattito sia pubblico e che ognuno dica a voce alta ciò che vuole dire. Perciò annuncio già subito che io leggerò tutto ciò che mi verrà scritto in pubblico e in privato, ma questa volta non risponderò più a nessuno. Ciò che ho da dire è in queste parole. Spero chiare.

Qui il link all’originale

Commenta sotto il post o in Parliamo di omosessualità