
Le Lettere di Paolo Pugni – Il frastuono volgare
Comincio a non poterne più. Di queste risse da bar. Di queste discussioni da trivio. Roba da carrettieri, da guappi, da gang latino-americane. Oltre tutto vestite da codardi, da chi si difende spesso confuso in un nickname, senza guardare negli occhi l’attaccato, senza sforzarsi di capire.
Mi hanno disgustato le rime aspre e chiocce che, avendo perso lo spirito arguto, competono sono per violenza e stupidità.
Mi meraviglia che queste dispute da bravacci avvengano tra chi afferma di essere alla sequela di quell’uomo-Dio che si annuncia come l’amore, senza fine, senza confini, senza misure, senza pregiudizi. Senza rifiuti. Tra chi si riempie la bocca di citazioni, filosofie, titoli, nomi, come un ubriaco si gonfia di vino per sentirsi più sobrio, e poi piomba nel suo vomito.
Di cento anime ce ne interessano cento, raccomandava un santo a me molto caro.
Qui pare interessi solo la propria e neppure per conquistare il cielo, solo per porla più in alto sul piedistallo, per sciorinare la propria patente di cattolicità DOC, finendo per assomigliare di più al fariseo della parabola, quello che se ne andò condannato. Perché qui invece che gocce di carità vedo scorrere insulti come le cataratte del Niagara.
Non ci sto più, e non vorrei proprio fare lo Scalfaro che non mi era neppure simpatico, ma lo devo citare, non ci sto più a questo gioco al massacro.
Non mi interessa da che parte sta la verità, mi interessa che non posso accettarla se è avvolta nel veleno del livore, dell’insulto sistematico, scientifico, della calunnia.
Non ci sto più a raffinare l’insulto. Ad arrotare le unghie per graffiare la tastiera di oltraggi affilati.
A brandire la lancia.
Anche perché questa scelta è un buco nero, trascina, risucchia, non ti lascia andare, ti sprofonda e ti digerisce in migliaia di anni come il mostro del Ritorno dello Jedi dove Jabba voleva sprofondare Luke Skywalker.
Ti inquina per osmosi, solo a leggerla questa rabbia così buia che non riesce a slanciare il minimo segnale di luce, neppure uno spiraglio di speranza.
Mi infetto a respirare questi miasmi. E gli effetti si vedono, finisci per mollare un pugno tanto per non essere da meno.
E sono altrettanto amareggiato dalla sindrome della luna e del dito, di chi si ostina a cavillare sulla virgola e perde di vista il discorso, di chi contesta l’esempio e rifiuta di guardare il problema, di chi striscia con worm-eyes –per dirla all’americana- invece che volare con bird-eyes.
Non m’aiuta. Non mi interessa, non è un servizio per nessuno star qui a prendere e dare insulti, che mi metto anche io nel mucchio, mica faccio lo snob o il presuntuoso puro.
Quando scoppia una rissa alla fine tutti vengono coinvolti.
Io voglio stare qui per imparare ad amare, per superare i miei limiti. Per capire che cosa voglia dire l’invito di Gesù a perdonare. Sempre. Senza perderlo di vista, ma perdonare.
Ho viaggiato molto in queste settimane e lì ti si spalanca la vista profonda, quella che non mente. Perché è facile amare quelli di casa, ancora di più gli amici che incontri volentieri ad una festa. Molto meno quelli che si accalcano con te su un vagone di seconda o ti fregano nella fila all’aeroporto. Non vorrei trovarmi come in un paese straniero del quale non conosco la lingua a chiedere aiuto, e non capire perché il frastuono delle differenze assorda.
Straniero in terra straniera.
No, voglio essere pellegrino, camminare, trovare sponda, sostegno,
sorriso. Come sul Camino, l’urto ci sta, ma se porta all’abbraccio non al coltello,
Sto alla tastiera e busso e ascolto e guardo e se nessuno apre non ho pazienza di un Dio che s’accoccola sulla soglia e aspetta fino alla fine, io non ne ho la santità per farlo, che invece che aspettare inizierei a picchiare la porta e a insultare. E questo sporca.
Voglio capire l’amore, l’odio lo conosco bene già da me.