ilsussidiario.net – Quei bambini uccisi dalle madri e dalle nostre agende
L’ultimo caso è di pochissimi giorni fa. Lei, impiccata in bagno, prima ha ucciso due figli e il terzo è stato trovato in fin di vita. Ma, purtroppo, è solo l’ultimo caso. Ce ne sono stati altri. Val Brembana: Gessica uccide a sassate il figlio di dieci anni, poi si getta in un dirupo. Lecco: una mamma uccide le tre figlie e tenta il suicidio. Avrei a disposizione la breve cronaca di un’altra ventina di casi analoghi. Madri. Disperazione. Figli. Omicidio. Suicidio. Cosa succede nelle nostre case? Anche se non è nostra la targhetta sulla porta sigillata dagli inquirenti, quando una madre uccide i propri figli, è la storia di tutti ad essere ferita, violata.
Cosa succede ad una madre per arrivare ad uccidere un figlio?
Non può essere una storia solo personale, solo patologica, solo border line, solo criminale. È cambiato qualcosa nella percezione del legame madre figlio, qualcosa che l’ha fatto diventare un fascicolo della sezione omicidi. Cosa non c’è scritto in quei fascicoli giudiziari che invece è necessario scoprire perché quel legame non ci trascini ancora più giù in fondo a un pozzo? Queste donne sono di nazionalità diverse, di culture diverse, di età diverse, di situazioni sociali diverse. Sì, sono stanche, sono depresse, sono preoccupate, spaventate. Sì, il loro equilibrio si rompe. Ma il punto è che loro non impazziscono da sole: loro uccidono i figli. Non lasciano tutto e spariscono nel nulla. Non uccidono solo sé stesse. Uccidono i figli. È qui che accade la novità tremenda, inimmaginabile. Un tempo le donne davano la vita ai figli. Gliela davano. C’era una consegna. Il parto era doloroso sempre, pericoloso sempre, mortale a volte. Quella cesura dolorosissima diceva che tu, figlio, sei altro da me, altro da tutti. Venivi fasciato, portato nella nursery, affidato a balie e nutrici. Non sto dando la colpa all’epidurale. Sto solo ripercorrendo la nostra storia per capire come siamo arrivati al fatto che una brevissima ricerca con google mi dà in pochissimo più di venti casi. Cos’è cambiato? Forse Mauro Magatti e Chiara Giaccardi col loro libro sulla generatività direbbero che c’è un problema sociale del “lasciar andare”. La società si è evoluta, i figli sono scesi dalle nursery e sono diventati i protagonisti della vita familiare. Intorno alle loro attività e necessità gira l’organizzazione e la vita di almeno due generazioni: genitori e nonni. I nostri figli sono parti integranti delle nostre agende oltre che delle nostre vite. Vite organizzate come agende professionali.
Dove tutto si incastra (e si incasina) quotidianamente. Forse il passaggio da vita donata a vita organizzata non è stato indolore. Si organizzano eventi e cose, ma un figlio organizzato, forse è un errore. Forse il figlio è diventato qualcosa di mio, qualcosa che non esce più da me con dolore e sforzo, che non si stacca più da me, ma semplicemente completa e definisce la mia vita. Quei venti casi, certo, gridano qualcosa del genere, dicono: “il figlio è mio”. Una donna porta sempre con sé quello che ha, e se possiede qualcuno, se si uccide porta con sé anche lui. Si distrugge tutto quello che era in vita nella nostra vita: i figli come se quei figli non fossero la loro vita – quella dei figli – ma solo e soltanto un’appendice di quella delle madri. Dire a un figlio: vita mia, è una bella cosa. Ed è bella perché è vera. Ma è solo una parte della verità. Il cuore della verità è che quel pezzo di cuore che è tuo figlio, è altro da te. Gli hai dato la vita, ed ora è la sua. È sua. Non è tua. Non gliela puoi rovinare. Non gliela puoi prendere. Amare non è possedere, è donare. Dal dono nascerà il legame. Madri e figli si nasce e si cresce insieme ma non si muore insieme. Il legame non può diventare cappio.
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