L’Huffington Post – Reyhaneh Jabbari e l’ergastolo “pena di morte nascosta”
Quando hanno condannato a morte Reyhaneh Jabbari ho pensato che fosse così ingiusto che non c’era e non ci poteva essere nessun commento da fare. Poi ho letto la lettera che ha scritto alla madre e ho iniziato a riflettere su questa giovane donna che andava a morire eppure parlava di un’altra morte che l’aveva sorpresa: quella di una prigione e del suo isolamento. E mi sono venute in mente le parole di Papa Francesco che ha abolito l’ergastolo dal codice penale vaticano perché “è una pena di morte nascosta”.
C’è un modo di morire che ci sorprende da vivi. Gettati in fondo al nulla delle relazioni, al nulla del silenzio, al nulla dell’isolamento di una cella. Se non hai nessuno che parla con te, che nulla sa delle tue lacrime e non vede i tuoi occhi perché non vede te, se è così, ti sembra una morte semplicemente perché lo è. Ma forse è anche peggio. Perché sei solo un “corpo gettato da qualche parte” e non hai neppure il conforto della religione a dire che dopo la morte c’è qualcosa. Di fronte alla morte, ogni religione ha una speranza, ma di fronte all’isolamento netto, perfetto, inesorabile, di un ergastolo, cosa rimane? Quando sei solo muori di ergastolo ancor prima che di patibolo. Con l’ergastolo non c’è nulla da attendere, sei in un infinito “senza fine”.
Ne posso parlare perché per fare una cosa così crudele non c’è bisogno di finire nelle aule giudiziarie. La sappiamo fare anche senza avvocati e codici. Ne siamo esperti anche senza aver mai studiato legge. L’abbiamo subito un ergastolo così. O lo abbiamo inflitto. Ogni volta che abbiamo pensato di curare le ferite della vita, delle relazioni della nostra vita, con delle amputazioni. Ed ecco, come con le amputazioni chirurgiche, continuiamo a sentire l’arto tagliato, ci fa male, ne sentiamo il peso e l’estensione. E non sono le terminazioni nervose ad averne memoria ma il nostro cuore.
Qual è il modo di non uccidere nessuno? Qual è il modo di non toccare Caino? Come posso fare a non toccare il Caino che ha ucciso qualcosa nella mia vita? Posso farlo toccandolo con il perdono. Strana cosa il perdono. “Arma potente” lo definisce Richard Romagnoli sull’Huffington Post. E mi piace questa definizione del perdono. Arma potente che non uccide ma difende e, difendendo, salva, e dà vita. Condannare a morte è chiudere una relazione, non farsi più carico di una situazione. Anche nel modo subdolo dell”indifferenza e del gelido silenzio fatto di assenza.
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Ecco invece che perdonare rende possibile vivere e dormire. Rende possibile ricominciare, perché rende possibile liberarsi. Una persona che perdona non conosce ergastolo perché ha una chiave in mano che aprirà ogni porta in cui la vita vorrà rinchiuderla. Non è una scelta, perdonare: è un percorso. Non bisogna essere forti per perdonare. Ma essere liberi. Non si ha bisogno di una scelta forte. Ma di un passo dietro l’altro. Di un cammino. Di quel dolore che va vissuto, non amputato e che ci devi entrare dentro. Ti devi conoscere per perdonare. Devi avere consapevolezza della tua storia. Devi dargli un nome, darti un nome. Perdonare è ritrovarsi. È scoprirsi. Se l”ingiustizia è fatta, l’ingiustizia rimane. Ma perdonare è scoprire che rimane anche la vita. E la dignità e l’amore e tutto quello che fa di una vita una storia che val la pena di raccontarsi.
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