Articoli / Blog / Racconti | 10 Ottobre 2014

Mauro Leonardi – Il Sognatore

Domenica 5 ottobre, alla Messa inaugurale del Sinodo che terminerà dopo domani, il Papa ha detto ai Padri Sinodali che devono essere cooperatori del sogno di Dio. Per questo mi è venuta voglia di postare un articolo che venne pubblicato nel n. 613 di Studi Cattolici del marzo 2012

«Lasciate che vi apra il mio cuore, così mi aiuterete a rendere grazie a Dio. Quando, nel 1928, vidi ciò che il Signore voleva da me, mi misi subito al lavoro. In quegli anni – grazie, Signore, perché è stato necessario soffrire molto e amare molto – mi presero per pazzo; alcuni, con aria di comprensione, si limitarono a chiamarmi “sognatore”, ma sognatore di sogni impossibili» (Amici di Dio 59). “Sognatore” è il titolo che alcuni compagni seminaristi avevano dato a s. Josemaría Escrivá durante gli anni del seminario, dunque prima del 1928. Il soprannome, riporta il Vázquez, alludeva chiaramente alla figura del patriarca Giuseppe così chiamato dai suoi fratelli a causa dei suoi sogni. «Furono oggetto di critica anche le lunghe visite al Santissimo nella Chiesa di s.Carlo e il suo zelo apostolico nelle conversazioni. “Ecco che viene il sognatore”, dicevano tra loro ad alta voce, rieccheggiando le parole dei figli di Giacobbe. Alcuni in seminario lo conoscevano come il “sognatore”». (Vázquez I p.141); e in nota si riporta: «Encanación Ortega riferisce che “ebbe, fin dalla prima giovinezza, uno zelo ardente per la salvezza delle anime e ricorda di aver sentito raccontare da sua sorella Carmen che, per questo zelo, in seminario lo chiamavano sognatore”». (Vázquez I nota 34)

Fa molto pensare questo appellativo. Quei compagni che vivevano con lui gli anni del seminario rimanevano stupiti da ciò che per un seminarista dovrebbe essere normale: la profonda vita di preghiera, l’ardente desiderio apostolico, la volontà di portare le anime a Cristo. Lo guardavano con gli occhi di chi percepisce qualcosa di strano, di fuori dalla norma. Eppure il sogno di Josemaría seminarista era quanto c’è di più normale per un seminarista: voler diventare un bravo e santo sacerdote e per far questo seguire la propria strada con tutta la disponibilità della sua persona, delle sue energie, della sua giovinezza. Non era sognatore di “cose impossibili”, ma uomo che desiderava portare a compimento tutto ciò che intravedeva essere per lui la chiamata di Dio. Quello che i suoi compagni consideravano, scherzando, un sognatore era in verità un giovane che prendeva seriamente gli impegni che si era assunto.

Mi chiedo perché ciò che è normale – un seminarista che prega e che ha zelo apostolico – viene guardato come “fenomeno strano”. Questo semplicissimo episodio che il Fondatore dell’Opus Dei non scorderà mai, mi sembra riveli qualcosa di importante. La capacità di sognare non è qualcosa che esula dalla realtà, non è un vuoto vaneggiare che nulla ha a che vedere con la vita. Sognare, sembra dirci quell’avvenimento, è prenderla seriamente questa nostra vita, è essere fino in fondo ciò che vogliamo e dobbiamo essere. È’ vivere con tutti e due i piedi, messi, radicati, in quella vita che assumo nella sua interezza come mia. Sono un seminarista dunque faccio il seminarista. Questa normalità è quella in cui si è incarnato il Verbo. «La superficialtà non è cristiana» scriverà tassativamente anni dopo in un sua omelia (E’ Gesù che passa, n. 174). L’oggetto del sogno è la vita, l’ordinarietà della vita, la profondità della vita. È in questo luogo dove possiamo trovare ciò che a volte sembra mancare alla nostra esperienza e che può tradursi nel fuggire in “sogni impossibili” cioè un sogno che sia estraneo al nostro vissuto, che non esista. I sogni di cui parlo non sono illusioni o utopie ma il compito di trasformare in sogno lo spazio che ci è dato vivere. Non è importante ciò che tu ti aspetti dalla vita, ma quello che la vita ti chiede. Il sogno non è altro che cimentarsi con tutte le proprie energie nel realizzare al cento per cento la propria identità, la propria vita. Sembra essere proprio questo a infastidire i compagni di seminario del giovane Josemaría, questo il motivo per cui lo prendono in giro. Il 13 febbraio 1938 dal gulag delle isole Solovki Pavel Florenskij scriveva al proprio figlio:«La vita è fatta in modo che si può dare qualcosa al mondo solo pagandone poi il prezzo con sofferenze e persecuzioni. E più il dono è disinteressato, più crudeli sono le persecuzioni, e dure le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma di base. E anche se nel tuo intimo hai coscienza dell’irrevocabilità e dell’universalità di questa legge, quando ti scontri con la realtà, con ogni caso specifico, resti colpito come se fosse qualcosa di imprevisto e di nuovo. Con tutto ciò, ti rendi conto che non è giusto il tuo desiderio di respingere questa legge e di sostituirla con la tranquilla aspettattiva da parte dell’uomo che offre il proprio dono all’umanità, un dono che non può essere ripagato né da monumenti né da panegerici dopo la sua morte, né dagli onori o dai soldi durante la vita. Al contrario per il dono della grandezza è l’uomo che deve pagare con il proprio sangue. E la società fa di tutto perché questi doni non le siano offerti. Nessun uomo illustre ha mai potuto dare tutto ciò di cui era capace, poiché ne è stato volutamente impedito da tutto ciò e da tutti coloro che lo circondavano. E se non riescono a impedirglielo con la violenza e le persecuzoni, si insinuano con lusinghe e regali, per corromperlo e sedurlo». (Florenskij, pp. 374-5)

 

La capacità di sognare ci conduce a qualcosa che non è impossibile ma che ci conduce oltre il nostro oggi, ci mette nell’attesa e nella speranza. Ci chiede di camminare, di aspettare, di guardare, di scorgere vie o modalità per raggiungere ciò che desideriamo, che sarà «un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di voi scoprire» (Colloqui n. 114). Forse nel loro compagno quei seminaristi vedevano non solo serietà nell’assumere la propria vita, ma anche la percezione chiara che Josemaría nascondesse dentro di sé un segreto che per quanto non detto informava comunque la sua esistenza. Una tensione verso qualcosa che gli permetteva di vivere in un modo che altri percepivano “strano”, uno sguardo che rimaneva, nonostante le difficoltà che trovò in seminario e nei primi anni di sacerdozio. «“Si notava che portava dentro qualcosa che faceva sì che il seminario rappresentasse una cornice troppo stretta per le sue aspirazioni”, dice uno dei suoi compagni. In fondo, era “un sognatore” di cose divine. Per tutta la vita lo fu. E avevano in un certo senso ragione quelli che lo chiamavano con questo nome» (Vázquez I, p.144). Noi adesso sappiamo quale fosse il segreto che c’era dentro quel ragazzo ma, almeno fino al 1928, esso non era chiaro neppure a lui. Amava ricordare la decisione di seguire Cristo con queste parole: «ho cominciato a presagire l’Amore, a rendermi conto che il cuore mi chiedeva qualcosa di grande e che fosse amore» (ibidem, p. 95) perché Escrivá «non voleva essere sacerdote per essere sacerdote, “el cura”, come dicono in Spagna. “Veneravo i sacerdoti ma non volevo essere un sacerdote così”» (ibidem p. 108). Quanto percepivano i suoi colleghi di seminario era il segreto di una chiamata che aveva il contenuto dell’Amore.

Il suo sogno quindi non era un sogno solo suo.

Altri lo diranno con una precisione migliore della mia ma penso di non sbagliare se dico che il sogno di s. Josemaría, il presagio dell’Amore, era innanzitutto il sogno di Dio. Con ragione il Vázquez lo definisce “sognatore di cose divine”. Il sogno che sosterrà l’intera sua esistenza non era semplicemente un suo desiderio, per quanto bello o profondo potesse essere, era qualcosa di più, era una chiamata a portare a maturazione un “sogno” che apparteneva a Dio stesso. Perciò penso che in ogni momento della vita, della storia dell’Opera come di tutte le storie che nascono da Dio – e di tutti coloro che a quelle storie appartengono -, ci si possa tornare a interrogare sulla propria identità solo a partire dal sogno di Dio; si possa descrivere la propria vita come un continuare a ripartire domandandosi come tornare ad ascoltare il desiderio di Dio. Questo è il segreto di quella vivacità dello Spirito che sostiene la vita della Chiesa lungo i secoli. “Ciascun carisma è una parola evangelica che lo Spirito Santo ricorda alla sua Chiesa (cfr Gv 14,26)” (Benedetto XVI, Madrid, Discorso 19 agosto 2011). Per questo è opportuno riflettere su quanto la capacità di sognare insita in ciascuno di noi sia strettamente legata alla presenza di Dio nella nostra vita. Ritrovare la bellezza di un Padre che custodisce un sogno per ciascuno di noi, che ci chiama a costruire la nostra esperienza a partire da esso, forse è la sfida che dovremmo imparare a cogliere e a trasmettere. Avremo anche la consapevolezza che per quanti possano essere i volti che questo sogno assume – i volti di ciascuno di noi -, esso avrà sempre a che fare con un’unica verità che è quella dell’Amore. Mi sembra che solo con questo punto di vista si possa provare a guardare il ”sognatore”, sia s. Josemaría o chiunque altro prenda Dio sul serio. Non tutti nella Chiesa sono chiamati a essere “fondatori”, ma tutti “sognatori” sì. E tutti abbiamo il compito di provare a dirci l’un l’altro di nuovo quel sogno, a raccontarcelo di nuovo. E’ un sogno. Quindi deve essere vissuto, fatto crescere, portato a compimento.

 

Credo sia doveroso riservare ancora un breve spazio (altri faranno degli studi monografici esaustivi e completi) alla modalità con cui s, Josemaría Escrivá è andato gradualmente scoprendo il contenuto del suo sogno. Egli voleva vedere. Voleva vedere chiaro perché, per quanto potesse essere impaziente, prima di costruire aveva bisogno di comprendere. Sembra quasi una tautologia, una ripetizione ridondante e superflua, eppure ciascuno di noi dinannzi a Dio può dire che non sempre rispetta questa consecutio temporum. Se è vero che il sogno è qualcosa che prima di essere nostro appartiene a Dio, altrettanto vero sarà che l’unico atteggiamento valido da tenere è quello di ascoltare Dio, di aspettare, di voler capire. L’icona meravigliosa di tutto questo è nel Vangelo il volto della Vergine Madre! C’è una particolarità nel percorso con cui s. Josemaría concepisce il tempo dell’attesa che mi sembra stupenda. Si scriveranno tante cose in merito, io mi limito solo a dare i contorni di una. Nel momento stesso in cui il ‘presagio dell’Amore’ affascina la sua esperienza e comprende di essere chiamato a qualcosa di particolare, inizia in lui un’attesa non passiva ma fatta di preghiera costante. Sono il contenuto di questa preghiera e la modalità con cui si esprime che mi colpiscono. Il Fondatore dell’Opus Dei non ha dubbi nel paragonarsi al cieco del Vangelo. Si sente come uno che non ha mai visto e il cui unico desiderio è quello di poter accedere al mistero della luce, in questo caso al mistero della luce che è Dio stesso. Vedere è il verbo che sostiene per anni la sua preghiera, il suo desiderio, il suo sogno. S. Josemaría non vuole innanzitutto ascoltare, non chiede che gli sia spiegato a parole il mistero, lui vuole vedere, vuole la luce per potersi mettere a disposizione del sogno di Dio. «Avevo il presentimento che il Signore volesse qualcosa; passarono parecchi anni senza che sapessi che cos’era, e intanto dicevo di continuo una giaculatoria, ricordandomi del cieco del Vangelo, cieco anch’io quanto al mio avvenire e al servizio che Dio desiderava da me; “Domine, ut videam! Domine ut sit!”, ho ripetuto per anni: che sia, che si faccia ciò che Tu vuoi; che io sappia, dà luce alla mia anima. Le luci non venivano, ma evidentemente pregare era la strada giusta» (Vázquez I, p. 177; cfr anche Amici di Dio, n. 197). È’ come se avsse la pretesa di guardare dentro il cuore di Dio per coglierne il segreto, e ciò non poteva che condurlo all’Amore, perché l’unico vero segreto è l’Amore. «Il suo ut videam era supplica di innamorato impaziente, un volerne sapere di più per dare tutto ciò che gli fosse richiesto, una petizione di luce per incamminarsi verso il compimento della Volontà di Dio. Intendeva la propria vocazione al sacerdozio come parte integrante di un’altra chiamata, al di fuori per il momento dalla portata del suo sguardo» (Vázquez I, p. 109).

Continuare a pregare per anni, giorno e notte, con una giaculatoria semplicissima eppure profondissima, significa non solo essere certi di quel presagio, ma significa prima ancora lasciarsi modellare interiormente da quello che si chiede. Significa imparare a credere al sogno che Qualcuno ha su di noi. Significa fidarsi senza misura della preghiera. Continuare a chiedere ut videam è accorgersi di essere ciechi e prepararsi disarmati ad accogliere la luce.

Sto cercando di dire che il sogno che appartiene alla vita di ciascuno di noi, ci modella ancor prima che esso diventi chiaro, ha in sé la forza di creare lo spazio dentro di noi per essere accolto. Siamo per alcuni versi ciò che desideriamo, o meglio sarebbe dire che il sogno di Dio – proprio perché è il suo -, ci fa essere e ci trasforma, ci modella come persona, se abbiamo il coraggio umile di chi chiede, di chi prega. Significa passare dal vederci solo con i nostri occhi, al vederci con gli occhi di Qualcuno che vede in noi non quello che siamo ma quello che dovremmo essere, che potremmo essere. Perché ci ama.

Ci interessa accorgerci che il sogno dell’Amore, così lo abbiamo definito, è qualcosa che va chiesto, supplicando di poter vedere come esso si possa concretizzare nella vita. Spesso tutto questo non sarà immediato, il tempo modellerà le nostre stesse anime, ma arriverà il momento in cui la luce renderà visibili i contorni della nostra esperienza e sarà luce che armonizza, che dà senso. Sarà luce che a sua volta continuerà a spingerci a chiedere ancora ut videam, perché non avremo mai finito di imparare a guardare dentro il mistero della Sua Volontà per ciascuno di noi. «Siamo noi uomini, talvolta, a non riuscire a scoprire il suo volto, perennemente attuale, perché guardiamo con occhi stanchi od offuscati. Adesso, all’inizio di questo tempo di orazione accanto al Tabernacolo, chiedigli, come il cieco di cui parla il Vangelo: Domine, ut videam!, Signore, che io veda! Fa che la mia intelligenza si riempia di luce per consentire alla tua parola di penetrare nella mia mente; fa che la tua Vita metta radici nella mia anima, per trasformarmi in vista della gloria eterna» (Amici di Dio, 127); «Quando ci si ritrova al buio, con l’anima accecata e inquieta, dobbiamo ricorrere, come Bartimeo, alla Luce. Ripeti, grida, insisti con più forza: Domine, ut videam! – Signore, che io veda!.. e si farà giorno per i tuoi occhi, e potrai godere la luce che Egli ti concederà» (Solco 862); «Mettiti ogni giorno davanti al Signore e, come quel povero bisognoso del Vangelo, digli piano, con tutto lo slancio del tuo cuore: Domine, ut videam! – Signore, che io veda!; che io veda ciò che ti aspetti da me e lotti per esserti fedele» (Forgia 318).

 

Raccontare il contenuto del sogno è impresa ardua. Proverò a farlo in punta di piedi. Altri specialisti di teologia spirituale spiegheranno cosa significa “grazia fondazionale” e lumeggeranno gli aspetti specifici di questa Fondazione. A me interessa contemplare le vite dei santi con l’atteggiamento di chi sa che nelle parole, nelle loro vite, nelle loro esperienze, c’è qualcosa che ha a che vedere con la mia vita. C’è qualcosa quindi che mi interpella, aspetta la mia risposta, il mio ascolto, la mia disponibilità. Io non sono un fondatore e quindi posso guardare agli aspetti specifici di una fondazione con un’ammirazione che mi riguarda fino a un certo punto, ma se guardo il 2 ottobre 1928, il giorno in cui s. Josemaría Escrivá vide l’Opera, a partire dalla mia vita qualsiasi, fondata e ordinata dalle cose normali della vita, vedo il mistero di una nascita. «Senza dubbio Gesù voleva che io gridassi dalle mie tenebre, come il cieco del Vangelo. E gridai per anni, senza sapere cosa chiedevo. E ho gridato molte volte la preghiera “ut sit”, che sembra chiedere un nuovo essere… E il Signore diede la luce agli occhi del cieco – malgrado lui stesso (il cieco) – e annuncia la venuta di un essere con anima divina, che darà a Dio tutta la gloria e stabilirà il suo Regno per sempre» (Vázquez I, p. 318). Un nuovo essere con “anima divina”. Le parole che ho riportato dicono senza dubbio che l’Opera nasce come un figlio. Che porta impressa in sé, già dai primordi, il seme della figliolanza-filiazione, non tanto come istituzione – o forse non innanzitutto…-, ma come dono alla Chiesa e al mondo. Come dono, ripeto.

Se leggo in quest’ottica, l’abitudine di s. Josemaría di chiamare i membri dell’Opera con l’appellativo di “figli, figlie”, capisco che non è semplicemente un modo affettuoso di parlare, ma una realtà che radica nell’atto stesso del nascere.

Se dico questo non mi allontano dalle nostre considerazioni sul sogno, perché credo proprio che nel contenuto della parola figlio sia nascosto il sogno stesso dell’Amore di Dio: il Suo Sogno è chiamarci figli nel Figlio perché lo siamo veramente. S. Josemaría usò una bellissima espressione per parlare della grazia del 2 ottobre. La chiamò “l’ordinaria provvidenza straordinaria di Dio”. «Vi posso assicurare figli miei, che queste anime non ambiscono né desiderano le manifestazioni di questa ordinaria provvidenza straordinaria di Dio e che hanno una profonda consapevolezza di non meritarle: vi torno a ripetere che il loro sentimento di fronte ad esse è di timore, di paura. Ma poi l’incoraggiamento del Signore – ne timeas! – comunica loro una sicurezza irremovibile, le incendia con impeti di fedeltà e di dedizione; dà loro luci chiare per compiere la sua amabilissima Volontà; e le infiamma perché si lancino a traguardi inaccessibili per le capacità umane» (Vázquez I, p.311). Mi sembra che l’ordinaria provvidenza di Dio sia proprio quella di averci creati e redenti come figli, figli del suo Amore, ma tale provvidenza diviene nel cuore di quel giovane sacerdote “straordinaria” perché è come se il sogno di Dio di raccogliere tra le sue braccia di Padre l’umanità tutta, avesse bisogno di essere di nuovo guardato e poi mostrato. Dio è un Padre buono, un Padre per tutti, anche per coloro che non sentono di meritare (soprattutto per loro!) di essere chiamati figli (cfr. Lc 15,19).

Certamente, uno dei raggi della Luce che si disvela a s. Josemaría quel giorno, è quello che gli permette di guardare dentro il cuore del Padre del cielo e di cogliere l’anelito profondo che ha per ciascuno dei suoi figli. Se provassimo a sostare un po’ davanti a questa verità, se dovessimo provare a guardarla non solo come l’inizio dell’avventura di s. Josemaría, ma come il cuore più di cuore del Padre celeste, rimarremo sospesi come bambini che contemplano con i loro sguardi innocenti spettacoli mai visti. Si racconta nella vita di s. Francesco che quando pronunciava il nome del Padre, soleva leccarsi le labbra, come per assaporare tutta la dolcezza di quel nome.

Assaporare la dolcezza della paternità di Dio per ciascuno di noi, lasciarsi avvolgere, senza timore, dal suo stesso Amore che ci vuole figli, partecipare di questo sogno che forse nessuno di noi avrebbe neppure mai immaginato. Credo che la grandezza di un santo sia proprio quella di lasciarsi avvincere da quello spettacolo, di crederci, e di spenderci poi l’intera vita.

Forse perché l’unico vero sognatore è il bambino.

Che ha un Padre e una Madre.

 

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Vázquez: Andrés Vázquez De Prada, Il fondatore dell’Opus Dei. La biografia di s. Josemaría Escrivá. 3 volumi, Leonardo International 2004.

Pavel Florenskij, Non dimenticatemi, Mondadori 2000