Blog / Lettere | 05 Luglio 2014

Le Lettere di Paolo Pugni – Uccidere l’amore

Mi piace provocare. Non perché sia cattivo dentro. Perché lo considero un efficace artificio retorico. E razionale. Un po’ come le dimostrazioni matematiche per assurdo: parti dall’opposto per arrivare a dimostrare la normalità.
Così nel ragionamento: ho la convinzione, il terrore, che oggi si sia più che mai anestetizzati, spenti, un po’ come il Theoden di Vermilinguo  (ahi, fefral mi bacchetta adesso… mi rifaccio: come gli studenti di The Wall quelli di we don’t need no education parara ump ump parara), o per lo meno i nostri pensieri siano incrostati di calcare. Per cui la provocazione, la vista Chestertoniana alla Roomeeffoc (poi vi spiego che cosa vuol dire) serve a scuoterci di dosso la crosta e provare a riflettere, anche per giungere a conclusioni diverse si intende, ma da uomini (e donne) capaci di sillogizzare, di articolare, non di farsi bere il cervello dai luoghi comuni, come fossero scie chimiche.
O peggio dai pregiudizi.
E di provocazioni ultimamente ne ho raccolte un bel po’, lo faccio come collezione: da quella del prefetto di Perugia che invita le madri di tossicodipendenti a suicidarsi  a quella del parroco novarese che  ha apostrofato i fedeli dicendo che la convivenza è peggio dell’omicidio  in quanto reitera ad libitum il reato. Oppure la madre dei Parioli che prostituiva la figlia sedicenne.
Da quale partiamo?
Dal parroco, non perché il tema educativo –in parte presente nelle altre due notizie mi sia estraneo, ma perché me lo tengo per una prossima volta.
Dunque che cosa ha detto don Tarcisio Vicario per scatenare una bufera? Ha scritto in verità nel bollettino parrocchiale, come riporta il Corrierone  che “l’omicidio è un «peccato occasionale», che può essere cancellato con «un pentimento sincero». Diverso invece il caso di chi convive come anche chi «si pone al di fuori del sacramento contraendo il matrimonio civile», perché secondo il parroco «vive in una infedeltà continuativa»”.
Ora al di là della “corazzatapotemkin” comunicativa, che forse sborda anche nell’errore teologico, c’è un fondo di verità, un rivolo forse, che fa bene andare a pescare.
Innanzitutto che secondo il decalogo entrambe le cose sono peccato grave, checché ne dica la vulgata comune, e che da sempre Gesù attraverso la Chiesa, fa presente che Lui è sempre disponibile ad attendere sulla collina il figlio che ritorna, ma che per preservarne la libertà aspetta che sia lui a fare l’ultimo passo (dai, diciamo il penultimo…), e che quindi chi rimane nel peccato… beh, finché non torna in sé e torna indietro… nel peccato sta, a rigore.
E che quindi la convivenza ha in sé ciò che qualifica la reiterazione e l’assenza di pentimento. Quindi da un punto di vista legalistico, la sparata di don Tarcisio è ineccepibile anche se ripugna, e con una certa ragione, al cuore.
E questo fa riflettere: ecco qui il pugno allo stomaco.
Primo: che non ci rendiamo conto di quanta retta diamo al cuore che spesso sbaglia, perché la sua dolcezza spesso spinge al falso, al male. Non tutto ciò che emoziona è per forza vero, anzi.
E quindi dovremmo abituarci a fare un passo indietro, o forse in alto, e iniziare a lavorare sui fatti per spremere fuori il succo, il messaggio, che il Signore ci parla con ogni cosa, in ogni istante.
Insomma riscoprire il dialogo interiore che il diavolo vuole spegnere del tutto: la persona che non parla con se stessa e disvela e sprigiona finisce come uno zombie. O peggio: un burattino senza fili.
Poi che la nostra vita finisce per oscurare la nostra capacità di giudicare e ragionare: poiché non possiamo avere sbagliato, la verità è dalla nostra parte e chi pensa che quello che io ho fatto è peccato, o peggio: errore, beh è un aggressivo fascista e fondamentalista.
E infine che quella storia lì dell’omicidio un po’ ci sta, perché convivere è uccidere la speranza, la fiducia. Ho sentito di recente in una predica una bella frase: “ogni volta che commettiamo peccato di fatto diciamo a Dio che non ci fidiamo di Lui”.
Convivere è questo, è soprattutto mettere se stesso al centro della vita. Chi convive non prova ad amare l’altro e si impegna a costruire insieme, per tutta la vita, la felicità comune e una casa accogliente per tutti, ma prova a vedere se i miei egoismi –fatemelo dire così- sono compatibili con i tuoi. Tant’è che quando questa pseudo-unione si sfascia si suole duire “non ha funzionato”. Che cosa non ha funzionato? L’incastro tra le tue e le sue rigidità? Tra le due voglie di affermazione? Ma l’amore è altro.
E di questo parleremo una prossima volta.

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