
Le lettere di Paolo Pugni – Hanno arrestato una persona che conosco e che stimo
Hanno arrestato una persona che conosco e che stimo. Ho avuto occasione di lavorarci assieme. Una gran brava persona. Sono convinto sia un errore. Sono sicuro che lo sia.
Ma non è di indagini e temerarietà che voglio parlare. Di altro.
Perché a ben vedere il problema si era già posto. Non di manette. Di altro.
Un tipo con il quale avevo avuto a che fare per lavoro è dentro per omicidio.
E qui non c’è possibilità di errore. Nessun ipotetico sbaglio.
Come li penso io questi? Questa gente?
E questo che interroga. Sulla mia, sulla nostra vera capacità di amare.
E mi sta come spina nel fianco. Perché mi sono reso conto che tutte le nostre opere buone, ancorché siano opere di carità e non amore, si dissolvono come foglie secche nel vento forte quando una notizia dura, cruda, da prima pagina –o anche interna, ma gridata- attraversa l’orizzonte.
Perché non è la vita precedente ad illuminare questa e a gettare chiarezza. È sempre il contrario. Lo sporco, ammesso che ci sia, inonda la limpidezza e la nega.
Guarda che cosa è successo a Gesù, che il Suo vero sacrificio –spiega don Ugo- è stato quello di non tornare a gridare vendetta quando risorse, ma ad andarsene via, sopra le nubi, da presunto sconfitto, da sedicente Messia, mentre per molti era quello di belle speranze finite in croce.
Io mi interrogo e mi chiedo se so amare queste persone, con le quali potrei aver condiviso il tempo, il sudore, le aspettative, gli sforzi. E se sono capace di tenere alto il loro onore, e non oscurarlo in trasparenza pensando “adesso capisco, adesso interpreto”. Cosa?
Che cosa capisci?
Che siamo peccatori? Che potremmo scappare domani con una ballerina di fila, come diceva un santo a me caro? Che la calunnia potrebbe riversarsi su di te comunque? Che il bene fatto resta tale al di là degli errori, sempre che ce ne siano stati?
Chi non ha peccato? Eppure eccomi lì, primo giudice a urlare a squarciagola quel crucifige che oggi suona il commento al bar, il post sui social.
Mi chiedo da dove nasca questo sentimento di rivincita volgare e violento: se da un senso di vendetta contro la serietà altrui, vorremmo essere sempre noi i migliori; se da presunzione; se da invidia; se da quel senso di sentirsi traditi che non si ferma neppure a ragionare ma spara per primo, per evitare di venire colpito, come in un duello; se perché abbiamo alla fine bisogno di purezza e tutto quello che può metterla in discussione, senza capire se sia vero o falso, ci scatena dentro il demonio.
Oppure perché il male sembra sempre avere più forza del bene e ci ottenebra nei giudizi.
Come Giobbe: che il diavolo lo va a tormentare perché è troppo felice, troppo bravo, troppo sereno.
Perché ci dà così tanto fastidio la serietà altrui?
Non riesco a spiegarmelo, come avrete capito. Sono solo terrorizzato da questo meccanismo perché se domani venissero a prendere me per qualunque ragione che non oso immaginare, e finissi in questo tritacarne non credo che ne uscirei sano di mente e di anima.
E il vero male è questo. Non riuscire a resistere alla vanità, a quel bisogno di luce che sfrigola l’anima. M’han detto qui in queste pagine che uno come me “piscialo”, che devo vergognarmi, che sono un menzognero, che tradisco i miei valori. E ci son rimasto scolpito dentro, non di quei colpi di scalpello che servono a togliere la crosta e rivelare la levigatezza della persona, così come Dio l’ha pensata e amata –chiariamo, mi ama anche così, con la carta vetrata- ma quei colpi che dati dall’invidioso e maldestro apprendista deturpano, sfregiano e costringono il maestro a intervenire e come sempre Lui ci cava fuori qualche cosa di meglio, di più perfetto.
Posso capire quindi quello che si soffre di là, dentro l’errore –vero o presunto- dentro lo scandalo.
Ma non riesco a dare un nome al mio sdegno, alla mia paura.
Come posso amare un figlio che sbaglia in molto meno? Come riesco ad essere come il padre del figliol prodigo che tutto copre, tutto spera, tutto sopporta?
Se quando posso allenarmi con altri, scelgo sempre dal mazzo la carta della peppatencia, dell’uomonero?
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