
Le Lettere di Paolo Pugni – Leggere lo specchio
In un bisticcio tra radio non ricordo più chi avesse affermato che ascoltare La Zanzara ti lasciava addosso quel senso di sporcizia e marciume come quando ti capita di attraversare un sottopasso abbandonato pungente di urina e immondizia, miasmi che ti sembrano scivolare dentro e infettare persino i ricordi. Immagine forte che per certi versi comunque associo a quella cloaca giornalistica che è il programma di Radio24, luogo che si fa icona di una società in cui l’apparire a tutti i costi cancella ogni etica e con essa la dignità. Per far ridere.
Un po’ questo senso di addolorata lordura m’ha colto alla gola leggendo scambi recenti a manciate qui sul blog, ma non perché io mi permetta di osservare e giudicare stando fuori –generalmente si presume più in alto- fissando con spocchioso orgoglio il fight club.
Tutt’altro.
Piuttosto l’estremo contrario, perché è come leggere allo specchio le passioni che si agitano dentro di me e grazie al vederle spalmate sul video prenderne coscienza per la prima volta con una fitta profonda e salvatrice.
Che senza volermi montare la testa, sarebbe paradosso, penso più all’inferno dantesco dove il poeta nel guardare le anime sbranarsi non provava orgoglio e superiorità, ma andava lavando le sue vesti per poter salire.
Ho scritto che cosa ho imparato dal blog, indicando ciò che di positivo ognuno m’ha insegnato. Ecco ho imparato anche qui, da questo scambio feroce, molte cose che svelano miei limiti e che vorrei squadernare senza ovviamente citare chi me l’ha smarmellato, che non è bello né nobile.
Ascoltare, qui capisco che sia faticoso, ma mi rendo conto come sia difficile farlo leggendo di sbieco e di corsa, spesso prevenuti, i commenti altrui che già ti aspetti cosa dica e prendi le frasi per quello che vuoi. Quanto sono capace io, Paolo Pugni, di ascoltare?
Manipolare: oh sì, come siamo bravi a ritorcere le frasi altrui, leggerci dentro quel che vogliamo e ricucirle con vestiti nostri spesso adeguati a sputtanare gli altri, attribuendo loro intenzioni che stanno dentro di noi. Ricordate come faceva Too much heaven on their minds me other way”.
Qualcuno qui è maestro in quest’arte. Quanto io, Paolo Pugni, distorco le parole altrui per mia soddisfazione e fine?
La permalosità: che poi è figlia di quella distorsione filosofica che ha trasformato “sono, quindi penso” che già di suo aveva una bella carica di menxogna, in “sono ciò che penso” e se non sei d’accordo ce l’hai con me e allora devo schiacciarti. Trovo una aggressività, un livore, un rancore, una violenza in alcuni interventi che se invece di colare giù dallo schermo si rapprendesse in una discussione per strada ci scapperemmo il sangue di sicuro e forse il morto. Quanto odio ci metto, io Paolo Pugni, nelle mie parole?
L’assoluta incapacità di vedere il punto di vista degli altri. E come si fa fatica. Mi fu donato un flash da ragazzino, quando ritto davanti alla porta del tram, appeso alla maniglia, vidi il manovratore lasciare a terra una signora che aveva attraversato la strada con grande rischio per la vita. Perché pensai in rapida successione “meno male, ho fretta” e poi “dannazione ho fretta”, cose se stessi vivendo la mia soddisfazione per aver evitato un ritardo e l’imprecazione della signora contro il tramviere che non l’aveva aspettata.
Qui non lo vedo: io ho ragione e tutti gli altri sono imbecilli, stupidi, ignoranti o in malafede. La mia esperienza è legge. È così, se è così che voglio che sia e così lo sogno, allora è così e voi andate tutti a bruciare lontano da qui. Questo leggo. Anche in ciò che scrivo.
E mi fermo qui, non perché non abbia imparato a trovare nel forum altri angoli sporchi della mia anima, ma perché il rispetto si misura anche in righe.
E l’amarezza ha bisogno di tempo per scivolare via e lasciare spazio alla gioia: un tempo questa distanza furono tre giorni.

Paolo Pugni
Commenta nel post o nel forum in Le Lettere di Paolo Pugni