Blog / Lettere | 01 Febbraio 2014

Le Lettere di Paolo Pugni – Rime aspre e chioccie

Conosciamo tutti mr. Hyde. Perché siamo noi. Dentro di noi. Si chiama peccato. E si agita e muove la testa e scuote forte. Specie se da fuori lo aiutano. Non necessariamente sapendolo o volendolo. Ma eccome. Basta cliccare, premere un detonatore. Come una mina.
C’è una bel libro che descrive le tipologie di persone difficili, quelle con cui non vorresti mai avere a che fare.
C’è il carro armato, il cecchino, il pallone gonfiato,  (lascio a voi indovinare quali siano i loro temperamenti e le loro provocazioni) e poi c’è il campo minato.
Le acque chete. Che d’improvviso esplodono con una violenza inattesa. Come se avessi pestato una mina.
Io sono così. È la violenza dei codardi. Di quelli che lottano, vi assicuro con onestà, per portare pazienza, anche perché hanno paura a volte (di che cosa? Anche di fare brutta figura, di perdere seguito: perché io sono anche espressivo, l’Influence di DISC, quello che ama stare sul palcoscenico e attrarre) o solo per quieto vivere (l’altra faccia della mia medaglia: amabile, Steady, quello che detesta il conflitto).
Poi detona.
E la rete aiuta, eccome se aiuta. Perché mica sempre scleri come quando a dodici anni ti sei messo a tirare sassi agli amici che ti prendevano in giro per aver sentito dire di te una parola che ti ha cancellato il controllo con un tratto di matita blu. Così, all’improvviso. Guardi e c’è il sole, ti giri, ti rigiri e sei avvolto dalla tempesta.
Qui è facile, che urlare parole ad uno schermo, a un nickname, a una icona vuota –che non ci si mette più neanche la faccia, magari per ragioni serie e sensate, ma che io nella mia ignoranza faccio fatica a capire, mica condanno eh! Solo non capisco, spero sia lecito. Si chiama ignoranza non indifferenza o risentimento. Semplice e banale ignoranza- all’ennesimo avatar dietro il quale mi nascondo, neanche fossi la Tara del serial tv. Una volta si chiamava schizofrenia o qualche cosa del genere. O trasformismo. Oggi è una chance a portata di tutti.
E non c’ho nemmeno alibi sia chiaro. Non è un peana questo o una arringa difensiva. È coming out  outing o come accidenti si dica. È chiedere preghiere. È condividere la ricchezza più abbondante che ho: una infinita fragilità.
Ma siccome sono convinto che tutto concorra al bene, che tutto sia grazia, lo sforzo che faccio è leggere dentro ogni cosa il sussurro di Dio, il Suo sorriso. Che Lui ed io già ci siamo fatti un linguaggio tutto nostro, come fanno gli adolescenti innamorati, come fa chi legge nei fiori se mi pensa o non mi pensa. Mica solo per le carezze, anche per gli schiaffoni, a volte così sonori che mi rimane il segno delle cinque dita sulla guancia, come quando saltava lo sghiribizzo a mio padre, che era sempre calmo, sereno, ma quando lo provocavo troppo… ecco adesso che mi ci fate pensare per questo da loro ho preso il pezzo: l’isteria vittimista di mia madre, sempre pronta a urlare gesticolando la sua sensibilità come una mazza chiodata, incapace di accorgersi che quella che vantava non era attenzione per gli altri, ma solo egoismo allo stato puro. E da mio padre la violenza improvvisa.
Che vorrei chiarire: ho avuto un’infanzia felicissima, figlio unico, sopravvissuto ai fratelli minori, immolati all’idolo del figlio perfetto al quale dare tutto –che mi perdonino e preghino per noi tutti- coccolato, riverivo, viziato, ricoperto di chance, sereno. Ecco, mica una infanzia da scrittore di rap o da grande viaggiatore. Più da bancario semmai. Felice per capire il senso della vita di rimbalzo, che c’è voluto il coraggio di qualche amico per passare la carta vetrata sulla pelle e svegliarmi. Così son venuto su, con poco dolore.
Forse con questa rabbia repressa che adesso vomita sulla pagina.
E poi c’è questa forza, incompresa, che rugge da dentro le situazioni e ti invita a farne tesoro.
Ci provo.
Mi aiutate?