Blog / Lettere | 16 Novembre 2013

Le Lettere di Paolo Pugni – Non ne posso più di voi che…

Andava molto di moda sulla fine degli anni Settanta, forse anche perché conteneva una valanga di parolacce che nessuno osava dire in pubblico specie gli adolescenti. Alcune sono state poi bandite –una inqualificabile “frocio” ad esempio- dalle conversazioni civili. O forse perché per la prima volta una canzone che andava in radio sputava fuori tutto il livore e una rabbia personale che solo i talk show degli anni Novanta avrebbero reso comuni. Iniziava così

“Ma s’ io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni/ credete che per questi quattro soldi, questa gloria da str***, avrei scritto canzoni”. La cantava Francesco Guccini. Si intitolava, correttamente, l’Avvelenata.

Diede la stura ad altre canzoni violente, meno ruvide ma forse più rissose, come quella coppia di sonetti aggressivi con i quali Alberto Fortis si fece conoscere e che lascio alla vostra memoria.
Ecco, la tentazione è forte. Ti vien voglia di buttarla lì la tua avvelenata, perché scopri dentro la vita quel rigagnolo putrescente di chi sempre e comunque fa precedere il pregiudizio all’ascolto.
E mi vien voglia di elencarli questi sciagurati, che ti rispondono secchi e senza una pausa, non dico di riflessione ma almeno per prendere fiato. Non con nome e cognome, ma con quei vizi, che in fin dei conti albergano dentro di noi pronti a gettarsi fuori come tanti schettino sulla scialuppa. Quindi sì, li riverserò qui sotto, non però come coltellate a critici, personaggi austeri militanti severi di ogni religione, gruppo, filosofia, ideologia, egoismo, ma come esame di coscienza, come specchio nel quale cercare, non da solo, le pustole che non prima mie.

Non ne posso più di voi che cogliere le parole per distorcerle ed estrarne non il succo ma il veleno che sta nei vostri pregiudizi.
Vi intimo di smetterla voi che non leggere e digitate furiosamente senza nemmeno respirare, perché una parola vi ha stravolto, ha gettato una luce cruda come sale sulle vostre ferite, e non vi accorgete neppure che l’avverbio che le sta vicino la ribalta.
Mi scandalizzate voi che con pervicacia vi atteggiate al bambino che è sempre vittima e mai carnefice, sempre martire e mai uccisore, sempre dalla parte della ragione, ma una ragione così sublime che solo voi la capire e gli altri, imbecilgente, attaccano sordi e ignari della fine che faranno.
Non vi sopporto più voi che soli capite tutto di tutto e di tutti e vi ergete non come misericordioso medico, ma implacabile giudice sferzando con parole ardite.
Tacete per sempre voi che vi ammantate di austerità nascondendovi dietro alla vostra esperienza, come se fosse per definizione più profonda e giusta di quella degli altri.
Vi disprezzo voi che non negate a nessuno il vostro disprezzo e odio e avete perso ormai il controllo della parola a tal punto che vi ingannate sulle stesse che escono dalla vostra bocca, ignorandone il significato e la violenza.
Mi indisponete voi che vi portate via il pallone quando non vi piace più il gioco, che vi atteggiate al peggior Moretti (mi si nota di più se vado o se non vado) che stravolgete il dramma dell’adolescente impacciato (mi sedevo timido e non mangiavo mai perché mi domandassero cos’hai) minacciando fughe che poi non avete mai il coraggio di intraprendere perché vi supplichino di restare.
Mi rubate il cuore voi che vi vantante sensibili ma l’unica sensibilità che provate è per voi stessi e le vostre esasperazioni e quelle degli altri neanche provate a capire che cosa siano.
Lungi da me voi che avete smarrito la strada della domanda sincera e aperta, per rinserrarvi nei carrugi delle affermazioni roteate come scimitarre a doppia lama.
Non vi sopporto più voi che cercate sempre il cavillo, la sfumatura, l’articolo, l’aggettivo: se metteste la stessa cura nel cercare parole e ritmo giusto in quello che dite/scrivete non ferireste così in profondità gli altri.
Basta voi che sembrate avere un talento speciale per ignorare l’ironia, lo scherzo, la battuta, l’umorismo, e subito buttate sul tappeto la permalosità del vostro rancore.

E per evitare che qualcuno fraintenda –guai a voi che leggete una parola su tre e subito vi inalberate senza neanche avere compreso o verificato- ribadisco in grassetto che questa roba qui, questa invettiva savonarolesca, ha un primissimo destinatario, vale a dire lo scrivente perché se non si comincia da se stessi –primero yo- tutto il resto è menzogna.

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