Blog / Lettere | 26 Ottobre 2013

Le Lettere di Paolo Pugni – La volgarità della passione senza ritegno

C’è una famiglia nel nostro comprensorio che puzza. Fisicamente. Quando si apre la porta della loro abitazione ne esce un tanfo maleodorante che impesta tutta la scala. E produce illazioni. Pensieri cattivi. Su che cosa produca questo fetore, su come facciano loro a viverci in mezzo, su come possa una famiglia ridursi in quello stato. E il pensiero gira e si aggroviglia e si impregna di quei miasmi fino a portarteli dentro, a inquinarti, a ungerti con la violenza della mormorazione.
A volte mi chiedo se la mia anima non sia così. Se quando ne apro la porta non ne esca un odoraccio di putrefazione e rancore che tutto schianta e trascina.
Me lo chiedo perché le vicende recenti che ho vissuto anche qui, sulle pagine di questo forum, mi interrogano con durezza e mi disvelano che amare, per parafrasare un santo, sono opere, non i bei post.
Ora capita che la passione prenda, ma la passione non è in sé un alibi o peggio ancora la pretesa di una obiettività santa, di un lasciapassare che garantisca immunità e saggezza.
E’ spesso il soffio del demonio che spinge sulla presunzione di verità per infangare il cuore: il mio e quello altrui.
C’è che ti prende quel senso di giustizia, che è falso e borioso, e ti schiaffeggia urlandoti addosso “ma chi è lui per dirti questo? Ma come non vede che sta sbagliando? Non si rende conto di quanto dà scandalo? Ma come fa a chiamare verità oggettiva quella che è solo una sua versione delle cose? E come fa a non rendersi conto della violenza di ciò che dice e di come lo dice? E questo egoismo di sentirsi offeso dopo aver offeso gli altri in modo peggiore? Come fa a tenere conto solo delle cose dette a lui e mai quelle che lui dice agli altri?”.
E questa cosa qui rugge talmente finché non vomiti fuori quelle quattro parole, in stato da bersek del web, e pigi con rabbia quel tasto che le condivide con il mondo. Senza renderti conto che stai parlando allo specchio e che quanto affermi vale innanzitutto al riflessivo…
Oh quanto se la ride Malacoda quando l’invio è schiacciato!
Perché non c’è peggiore ingiustizia della giustizia secca senza misericordia, senza quella parte in più (risuona il “lascio?” dei vecchi salumieri) che fa la differenza per affetto.
E tu, come post -se è vero che il latino dice che dopo ogni animale è triste-, te ne stai lì a quel punto si offeso ed umiliato, da te stesso, deriso da quella passione che adesso ti si svela, eppure ancora lacerato tra l’apparente giustizia e la totale assenza di misericordia.
E non è una bella situazione, che l’anima si sfarina e duole e ne rimane marcata a volte anche a fuoco.
Puoi salvarti se riconosci l’errore, ti ficchi sempre più giù se invochi la sensibilità. Che è sfregio della verità. Nella mia vita ne ho sofferto molto, dato che una persona a me molto vicina per anni l’ha usata come flagello. Curioso, quando si usa questo termine –sensibilità- spesso e volentieri per brandirlo: “la mia sensibilità” è trascurata dagli altri, “la loro sensibilità” citata per affermarne l’assenza. La mia esperienza è che chi la invoca ne è privo, perché la usa come specchio egoistico nel quale rimirarsi, accusando gli altri di non rispettarla mentre il più delle volte è proprio lui a non sapere neppure che cosa sia quella altrui.
Ne ho sofferto molto perché questa persona, che mi ha generato, mi schiacciava sotto il peso della sua sofferenza che noi le causavamo proprio perché insensibili, incapaci di comprenderla, di amarla come lei voleva.
E se ne ho respirato troppo i miasmi, come quelli dell’appartamento contiguo con il quale ho aperto, vorrei proprio liberarmene per sempre.
Vomitando fuori queste righe nella speranza che nulla ritorni.
E che questa condivisione, testimonianza direbbe qualcuno, possa essere utile a tutti, primo io si intende, per aiutarci a deporre almeno qui le armi dell’arroganza, e provare ad ascoltarci iniziando a leggere con attenzione, parola dopo parola, ciò che gli altri scrivono, con cuore sincero e ben disposto.
Come Gesù.

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