Le Lettere di Vittoria Patti – Le brutte scuole
All’inizio di quell’anno, le mie classi erano tutte da conoscere. A tutti diedi allora un questionario in cui potevano presentarsi, rispondendo liberamente ad una serie di domande. Una di queste era: cosa non ti piace di questa scuola? Moltissimi fra loro risposero lamentando che è una scuola brutta. Uno dei cliché sui teenagers vuole che non abbiano buon gusto, anzi che il brutto abbia su di loro una certa attrattiva. Sbracati e sdruciti come sono, con orridi teschi sanguinolenti sulle magliette, e i diari coperti di scritte sguaiate a sghimbescio, non sembrano proprio cercatori di bellezza. Ed invece… Brutta o bella, la loro scuola? Decorosamente bruttina, triste, bassa e grigia, i soliti pannelli di cemento a vista. E loro la vorrebbero bella: allegra, o perlomeno “dipinta”, come uno di loro mi ha detto: perlomeno vestita di tinta bianca, non grigia e spoglia.Mio papà faceva l’architetto, e forse per questo l’argomento tocca una corda sensibile in me. Sono convinta che, fra ciò che sarebbe dovuto alle giovani generazioni, e invece stiamo dando troppo poco, c’è proprio la bellezza. In fondo una brutta scuola dice quotidianamente ai ragazzi che ai grandi non importa gran che del loro cuore, dei loro occhi, della formazione del loro gusto. Le pareti spoglie, le tapparelle che nessuno fa riparare per mesi, l’illuminazione scadente, dicono continuamente un sostanziale disprezzo per i corpi stessi dei ragazzi, imprigionati in uno squallore ospedaliero per sette ore al giorno. Io credo che si debba tenerne conto, quando si giudica il comportamento dei ragazzi a scuola. Credo che spesso si rischi di cadere in una specie di malsano spiritualismo quando si pretende da loro che siano concentrati e silenti, volenterosi ed attivi, creativi e positivi, mentre li si circonda di bruttezza. Si pretende cioè che il loro spirito risponda magicamente ai richiami di Madonna Cultura, come le corde della lira al tocco delle dita di Orfeo, mentre il loro corpo freme in un banco sbilenco, fra pareti di lamiera e cartongesso, e dalle finestre si vede solo altro cemento. Intendiamoci, io sono la prima ad arginarne la corporeità: «Tira giù quei piedoni!… Girati, la lavagna è da questa parte!… Non dondolarti sulla sedia, non ho voglia di venirti a trovare all’ospedale!… Perché ti aggiri fra i banchi? Trova quaggiù una fissa dimora, ed assumi per favore un assetto operativo…». Ma guai se sapessero che in realtà comprendo e condivido la loro ribellione, e avrei voglia come loro di riempire quella scuola di musica, di luce e colore. La scuola che mio figlio ha scelto di frequentare dopo le medie ha le pareti dipinte di un colore diverso per ogni ambiente. I corridoi sono gialli e arancio, le classi azzurre, verdi, lilla, i laboratori gialli, blu, turchesi. C’è un pianoforte in sala professori, e qualche riproduzione d’arte alle pareti. E le lavagne, che invidia! Immense lavagne di vera ardesia nera. Non dico che lui ha scelto quella scuola per i colori. Ma certo ha colto che l’attenzione alle persone passa anche la cura per gli ambienti dove vengono accolte. Una buona scuola deve essere anche bella.
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