Blog / Lettere | 19 Settembre 2013

Le Lettere di Andrea Piccolo – Siria, Cuba e i genitori

Obama ha dichiarato che se la Siria metterà sotto il controllo della comunità internazionale il suo arsenale chimico la guerra, da lui sempre presentata come rappresaglia limitata in verità, potrebbe non essere più necessaria. A meno di impreviste complicazioni per l’azione di qualche dissennato, è indubbiamente il segnale che tutti aspettavano col fiato sospeso, e non si tratta dello scatto secco del detonatore ma del frullo d’ali di colomba. Nei prossimi mesi comincerà a prendere forma questa convergenza di intenzioni in termini di assetti politici, militari ed economici, i cui riposizionamenti sono destinati a produrre effetti per molti anni. Le crisi planetarie sono frequenti e le guerre, purtroppo, sono cronaca quotidiana, ma questa crisi siriana avrebbe potuto sfociare in un conflitto terrificante oltre ogni immaginazione. Tutti pronti a qualsiasi scenario, Stati Uniti, Russia, Siria, Iran, Israele e il jolly: Al Qaeda in rappresentanza degli stati che sostengono il terrorismo fondamentalista. Si sa che gli equilibri politici ed economici sono sempre in evoluzione, così quando uno stato vuole migliorare il suo ruolo o vede altri che “si allargano troppo”, qualcuno comincia a fare la voce grossa e si cominciano a vedere atteggiamenti aggressivi e difensivi. Non è mia intenzione approfondire ora i risvolti morali di queste dinamiche, di fatto bluff dai toni anche marcatamente bellicosi hanno sempre fatto parte del “teatrino della politica”, infra o internazionale che sia. Questa volta però era diverso, il muro contro muro era sfuggito al pieno controllo di una regia politica per entrare in una dinamica autoalimentante, a una dichiarazione di intervento si risponde spostando una nave, a un movimento di truppe si risponde con una esercitazione cui si risponde lanciando un paio di missili. Più dei rapporti degli analisti che monitoravano il precipitare degli eventi, è stata significativa la rottura con la Gran Bretagna, che per la prima volta non si è schierata con lo storico alleato. L’alleanza USA – GB è così radicata da essere un caso unico per durata e solidità tra gli stati contemporanei, se poi si considera che uno è ex colonia dell’altro la cosa è ancora più singolare. Winston Churchill in un discorso del ’46 la chiamò “special relationship” e da allora l’espressione designa questo legame particolare. Una rottura in questa relazione privilegiata non può essere attribuita a un incidente di percorso o incomprensione di poco conto, e dà una misura della tragedia cui ci si stava avviando. Almeno un’altra volta fummo sull’orlo della catastrofe, nel 1962 con la crisi dei missili di Cuba, quando gli Americani scoprirono che i Russi, all’epoca Unione Sovietica, stavano installando testate nucleari a Cuba. Anche quella volta le due superpotenze si fronteggiarono in una escalation che per tredici giorni tenne il mondo col fiato sospeso. Per la normale progressione della conoscenza storica, ci sono meglio noti i dettagli di quel fatto lontano cinquanta anni, e sappiamo che l’uso di armi nucleari fu evitato per un soffio e in più di una occasione. Soprattutto fu evidente come, da entrambe le parti, un comandante in capo prudente non è sempre una garanzia sufficiente a trattenere i falchi e scongiurare la catastrofe. Significativa è la narrazione di Robert McNamara, segretario alla difesa dell’amministrazione Kennedy, che nel film documentario “Te fog of war” del 2003, espone fatti e retroscena vissuti da protagonista in quella crisi drammatica. Anche nel caso di Cuba, il meccanismo di escalation venne disinnescato da una proposta su iniziativa unilaterale capace di favorire gli interessi di entrambe le parti. Può sembrare ovvio e banale dire che per sbloccare una situazione di crisi è necessario trovare una soluzione che accontenti tutti, ma diventa meno banale non appena si considera che in un “muro contro muro”, il primo che fa un passo indietro ha perso non solo il confronto ma anche credibilità. Nel caso della crisi siriana, il Presidente Obama si era chiuso all’angolo da solo e sembrava vagare alla ricerca di una scusa per disimpegnarsi senza trovarla: fare leva sul mancato sostegno dell’Inghilterra avrebbe significato consegnare a uno stato terzo il potere di ratifica delle sue decisioni. Chiedere il parere del Congresso era una buona tattica, ma nella stesura del documento preparatorio i tre giorni di bombardamenti sono diventati sessanta. Forse la svolta si è avuta al G20 a San Pietroburgo quando, dopo una prima giornata di accenni frammentari alla crisi, il presidente Putin ha dichiarato che i lavori del vertice sarebbero proseguiti secondo l’agenda prevista senza più affrontare il tema Siria. Le possibili chiavi di lettura erano due: abbiamo posizioni inconciliabili e stiamo perdendo tempo per cui evitiamo di perderne anche sui punti in agenda, oppure finalmente stiamo iniziando a comunicare e i signori giornalisti sono pregati di starsene in disparte, perché se sollevano polverone si arena tutto nuovamente. Con un facile senno di poi era fortunatamente (o grazie a Dio…) il secondo caso. Le dinamiche conflittuali tra superpotenze si ripropongono con sorprendente affinità anche nei rapporti interpersonali. In particolare l’escalation rapida e dirompente mi pare una caratteristica delle “crisi” in contesto pedagogico educativo: tra persone mature e responsabili quando la frattura è insanabile si tende a lasciar correre ignorandosi reciprocamente, è piuttosto raro che si giunga a una contrapposizione violenta e quando capita si parla di raptus, di un momento di follia, del caldo estivo che ha annebbiato la ragione; significativo che queste motivazioni non si usino mai per organismi o stati, nonostante siano retti da persone. In uno scenario educatore-discepolo invece, capita spesso che una divergenza evolva rapidamente in una ferma opposizione che può a sua volta portare a una frattura. Mi sembra che questo possa essere giustificato dalla specificità dei ruoli che interagiscono. Da una parte l’educatore caricato della responsabilità di discernere tra ciò che è negoziabile e ciò che non può essere concesso mai all’interno di un percorso formativo, dall’altra la persona che ha cominciato a comprendere e verificare che la sua maturazione si realizza anche al di fuori dell’iter educativo ufficiale, e comincia a percepire la sua identità dotata di autonomia inalienabile e dignità assoluta. Inevitabilmente a volte la tensione cresce fino al muro contro muro. In questi casi mi pare si inneschi lo stesso meccanismo che porta le nazioni a sfoderare le armi: nessuno può fare un passo indietro. Per uscirne senza ferite profonde è cruciale offrire al giovane una via d’uscita che salvaguardi la sua dignità. Do per scontato che il più delle volte l’iniziativa sia e debba essere dell’educatore perché ce lo si attende dai compiti del suo ruolo e perché la maturità in questi casi dovrebbe essere buona consigliera. Nei fatti ognuna delle parti può prendere l’iniziativa e per fare un esempio personale mi è capitato di trovarmi in delicate situazioni di tensione abilmente risolte dai miei figli con la parola giusta. Il punto cruciale rimane evitare di proporre o pretendere qualcosa che sia percepito come umiliante, nelle relazioni interpersonali private così come nei rapporti tra stati.

18 settembre 2013 – Andrea Piccolo

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