Blog / Presentazioni dei libri | 11 Aprile 2013

Abelis – La presentazione a Torino. L’intervento di Nicolò Terminio

Innamorarsi è decidere di esistere. Presentazione del romanzo Abelis di Mauro Leonardi (Ed. Lindau, 2012). Collegio San Giuseppe – Torino. Giovedì 11 Aprile.

Traccia dell’intervento di Nicolò Terminio

La storia narrata da Mauro Leonardi nel romanzo Abelis è una metafora del rapporto tra l’uomo e il mistero. Non si tratta solo del mistero, ma anche del “perturbante” (unheimlich) e di ciò che può apparire angosciante in quanto sconosciuto.

La storia del bambino Abelis è un buon punto di appoggio per le riflessioni che la psicoanalisi può oggi compiere sulla società, sulla formazione del soggetto e addirittura sulle stesse finalità di un percorso terapeutico. Il mio obiettivo non sarà però quello di proporre una sorta di patografia del testo, leggendo tra le righe l’inconscio nascosto dei personaggi o dell’autore. Parto semmai dal presupposto freudiano che vedeva gli psicoanalisti come i cugini poveri degli artisti, in quanto questi ultimi possono accedere alla verità dell’uomo senza la mediazione di elucubrazioni filo-scientifiche.

Un romanzo come Abelis mostra in superficie la profondità dei movimenti e delle trappole della psiche umana. Non è allora in questione una psicoanalisi applicata alla letteratura, ma una psicoanalisi che raccoglie dal testo letterario i nodi e “le domande radicali” che interrogano l’uomo. La storia di Abelis diventa così un paradigma narrativo che ci fa ripercorrere le tappe dello sviluppo individuale e sociale.

All’inizio siamo proiettati nel mondo di Arileva, che con il suo castello e i suoi abitanti ci offre un contesto sociale dove il principio che muove ogni legame è la ricerca della felicità. E i cavalieri sono lì per difendere il regno di Arileva, sono lì pronti a sacrificare il loro esser uomini per diventare individui con la pelle di ferro, cavalieri non più umani (senza ricordi e senza desiderio) di cui nessun drago potrà nutrirsi. Capiamo ben presto che dietro la parola felicità c’è un significato particolare, distorto.

Il cantore di questa versione distorta è Ciambellano, “suddito inflessibile” del Re, di cui ha sfruttato i poteri magici per distogliere la popolazione di Arileva da ogni eventuale confronto con il pericolo. Ad Arileva il potere di trasformare gli uomini in cavalieri dalla pelle di ferro viene sapientemente gestito da Messer Ferriere, che entra però in crisi quando Ciambellano gli affida il compito di trasformare Abelis in cavaliere: “ha necessità di sapere, ancora e ancora, che il senso di sicurezza di tanta gente dipende dai cavalieri che lui crea su ordine di Ciambellano. Che la pace dipende dalla sua disciplina, dal suo obbedire facendo cavalieri, del mettere uomini nell’armatura. È grazie a lui se anche quella notte la gente di Arileva può dormire. Quella gente che ormai vuole che in ogni cambiamento della vita, in ogni passaggio da una situazione all’altra, ci sia la presenza dei cavalieri. […] Non solo il cambiamento del nascere e del morire, ma anche quello delle stagioni, delle feste, dei matrimoni, dalle compravendita di uomini, dei giochi. […] La gente è angosciata dall’ignoto e per questo vuole essere inquadrata da regole fisse che la proteggono. Quanto è anormale, insolito, è una minaccia” (pp. 27-28).

Il prezzo di questa tranquillità è l’adozione spregiudicata di un potere – quello appunto di trasformare gli uomini in cavalieri – di cui non si interroga il significato: “non c’era bisogno di capire cosa avvenisse, ma solo di comprendere come applicarlo” (p. 23). Vediamo qui emergere una delle prime “domande radicali” del romanzo: siamo cioè di fronte alla questione etica che fa da sfondo ad ogni applicazione della tecnica. La via scelta da Ciambellano è quella di “usare la magia per compiere il proprio destino, quello del regno più grande di ogni altro” (p. 23). Il destino viene qui piegato e omologato alla necessità di diventare più grandi, superiori agli altri, dominandoli. Di pagina in pagina la parole di Ciambellano mostrano l’intreccio paranoico tra l’ipertrofia dell’io e il rigetto dell’incontro con l’alterità. Di fronte alla presunta minaccia dell’Altro, la magia diventa un espediente per esorcizzare lo “sbando” e per edificare il regno di un Ego chiuso su stesso, ovvero un regno che si fonda sulla cultura del narcisismo. La paranoia è rintracciabile nella certezza sulla malevolenza dei draghi, che vengono automaticamente equiparati a dei mostri. La paranoia è allora una sorta di “conoscenza totale” che esclude la verifica empirica, ossia l’incontro effettivo con i draghi.

In una delle scansioni del romanzo vediamo però Messer Ferriere di fronte a un drago: questo evento sancirà in modo definitivo l’assoluta infondatezza delle convinzioni di Ciambellano: i draghi non sono mostri, abitano semmai “i pezzi di vita che non abbiamo accettato, tutto ciò che abbiamo escluso perché non corrispondeva ai nostri pensieri” (p. 103). I draghi sarebbero allora i rappresentanti di un’alterità irriducibile al dominio delle nostre capacità mentali e fisiche, un’alterità che siamo allora tentati di non accettare e di escludere. Nel romanzo – che nel risvolto di copertina si autodefinisce appunto un fantasy “metafisico” – non è in gioco soltanto il rapporto con il mistero che i draghi possono evocare in noi: il mistero è nella natura. Capiremo infatti che la natura non è solo un oggetto scientifico su cui intervenire, perché è innanzitutto Creazione.

La traccia per questa prospettiva la sentiamo pronunciare da Abelis già nelle sue prime battute, quando appunto un cavaliere gli dice: “«Chi sei? Lo sai che quello ce l’aveva con te?» chiede il cavaliere mentre il suo elmo guarda Abelis. «Sul serio? – dice Abelis – Mi sembrava che voleva solo scappare»” (p. 11). Il candore e la semplicità del bambino percorreranno tutta la storia, costruendo quel filo che tiene insieme la fiducia e la speranza in un mondo dove la verità possa emergere, anzi ri-emergere.

Nel rapporto tra Abelis e il cavaliere Blennenort assistiamo ad alcuni dei passaggi più commoventi, dove la verità del cavaliere si fa strada attraverso il riaffiorare dei ricordi, ricordi fatti di carne e di sensazioni che rimandano all’unica vera magia implicitamente approvata nel romanzo. Si tratta della magia dell’incontro tra esseri umani. I cavalieri invece “dimenticano di essere uomini” (p. 39) e non sentono più le carezze. I giovani che diventano cavalieri “non immaginano cosa significhi «per sempre»; invece «invulnerabili», «invincibili» sono parole comprensibili, che affascinano la loro giovinezza” (p. 34).

Il messaggio di cui si fa testimone Abelis è completamente opposto a quello promosso da Ciambellano e sostenuto, perlomeno fino a un certo punto, da Messer Ferriere. A quest’ultimo Abelis chiede: “ma i cavalieri le sentono le carezze?” L’unico però in grado di dialogare con Abelis è Blennenort: il bambino spiegherà poi al cavaliere che una mamma è “una che accarezza” (p. 59). Ecco qui comparire il ruolo fondamentale di Lutet, la madre di Abelis, che con la sua fedeltà alla dimensione dell’amore riuscirà a scardinare il piano distruttivo di Ciambellano, un piano che si fonda su un presupposto paranoico: “io ho bisogno dell’esistenza di un nemico, anche a costo di chiamare nemici tutti coloro che mi stanno vicino e di rimanere da solo” (p. 125). Ciò che sostiene l’identità di Ciambellano è l’opposizione a qualcun altro: è l’odio verso l’estraneo che cementa la soggettività in un’armatura senza carne e tenerezza.

Il passo argomentativo del romanzo si fa sempre più pronunciato: anche se in forma narrativa viene presentata una teoria dell’amore che viene condensata così: “«ti amo» vuol dire solo una cosa: «È importante, oh quanto è importante, per me che tu esisti»” (p. 78). E sarà la dimensione relazionale dell’amore la causa per cui “le armature andranno in follia” (p. 112) mostrando così che la follia riguarda in realtà la missione scellerata di rendere l’uomo come una fortezza vuota, dotata di un’inutile protezione dalla vita.

Nello sviluppo della storia Blennenort ristabilirà i giusti rapporti di causa ed effetto tra paura e pericolo: è la paura dei mostri che genera il pericolo dei mostri, e non viceversa, come sosteneva invece Ciambellano. “I mostri nascono quando ci si vuole liberare dei draghi in modo assoluto e quindi si inventano i cavalieri con l’armatura al posto della pelle. Quando si vuole estirpare in modo definitivo il loro pericolo per noi, il loro vivere nel nostro mondo. È allora che divengono mostri. La mostruosità dei cavalieri con l’armatura al posto della pelle fa nascere la mostruosità dei draghi” (p. 140).

È l’ipertrofia di un Ego che non si lascia abitare dal mistero che produce il sentirsi sotto assedio: l’esigenza assoluta di controllo sulla vita trasforma ogni segnale in una fonte di pericolo. La forza della storia di Abelis consiste allora nel rovesciamento di ogni egologia più o meno patologica. In questo romanzo il lieto fine è la dissoluzione del potere dell’io, di un io che si ritiene autosufficiente e che pretende di funzionare in modo autoreferenziale: “io voglio liberarmi dall’obbligo di fare qualcosa solo perché è possibile farlo” (p. 134) dirà ancora Blennenort. Sarà su questa via che si configurerà in modo sempre più nitido la possibilità di assaporare la vita, di accorgersi di essere proprio dove si è per “conoscere e accettare fino in fondo la propria sorte” (p. 88) e capire finalmente perché “innamorarsi è decidere di esistere” (p. 133).

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