Lettere – Libertà d’espressione e rispetto delle convinzioni religiose
Metto le mani avanti, prima di creare scompiglio e reazioni estreme: sono stato invitato alla mobilitazione contro lo spettacolo di Castellucci. Ho scritto che parteciperò, ma ho pigiato il tasto senza troppa convinzione, perché ho un paio di cosucce che mi sono andate per traverso nella coscienza e ho bisogno di parlarne. Parliamone. Lo starets interrogato dall’Anticristo di Solov’ev su cosa sia più prezioso nella fede in Cristo risponde “Cristo stesso”. Immagino che sia questo il motivo per cui quando qualcuno in qualunque modo offende un’immagine di Cristo, molti si sentono offesi a loro volta. Io non voglio affrontare il problema dal punto di vista del diritto dove illustri giuristi hanno già ampiamente detto la loro (devo dirlo: non convincendomi del tutto), ma mi interessa invece stare su un piano più strettamente evangelico, inteso come riferimento alla buona Novella, non al protestantesimo. Quella di Castellucci a me non pare un’eresia (quindi non scomoderei S. Ambrogio per confutarlo) né un atto di reale apostasia, al massimo (e forse) si può parlare di iconoclastia, per quanto per la fede cattolica l’icona non sia un oggetto sacro in sé e quello usato nella rappresentazione teatrale non è nemmeno l’icona quanto una sua proiezione cinematografica. Certamente è una provocazione sgangherata e turpe, ma non in sé quanto in prospettiva escatologica. La rappresentazione del dolore, dell’infamia di una vecchiaia che toglie la dignità, del peso che tale condizione genera sull’uomo disamorato, l’urlo disperato che cerca un senso anche quando non vorrebbe farlo, e non riesce a trovarlo nella cultura in cui è immerso e pertanto nell’origine di quel processo culturale che è la radice cristiana in cui tutti noi Europei siamo stati, volenti o nolenti, generati; il trascinare quell’appiglio di senso, misconosciuto ma unico, nella propria condizione, che su quel palcoscenico ma in molti aspetti della vita ha a che fare con escrementi e incontinenza, con dolore irredento, maledizione e bestemmia (e quante altre realtà sarebbero da portare su quello stesso palcoscenico: corridoi di reparti oncologici, stanzoni di ricoverati psichiatrici, reparti di malattie neurodegenerative, ricoveri di malati di alzheimer, ecc. ecc.) non è in sè un atto profanatore, perché non è altro che il motivo per cui Cristo è venuto tra noi. Ma come il disincanto del prologo del Vangelo di Giovanni ci dice che la Luce è venuta nel mondo, ma le tenebre non l’hanno accolta, su quel palcoscenico si consuma il dramma dello schifo che resta nel mondo, dopo tale rifiuto. L’assenza di una prospettiva di redenzione nel cuore dell’uomo non ha mai fatto paura ai veri testimoni cristiani, e anche San Paolo all’aeropago non può proprio dire di aver avuto un gran successo nell’averne parlato a gente che pure era la più open minded dell’epoca. Non avevano certo una prospettiva di redenzione coloro che sono andati a prendere Gesù nell’orto degli ulivi, ma ricordiamoci come Gesù ha trattato chi voleva difenderlo con la spada. Il regista-sceneggiatore di quest’opera non è certamente uno stinco di santo, e forse non merita la benevolenza con la quale sto cercando di trattare questa sua provocazione coprologica, e d’altra parte l’ambiente culturale che lo suscita è sempre lo stesso, da Nerone ad oggi non è cambiato un granché. Ma se c’è una cosa che non ha mai caratterizzato i cristiani nel difendere i simboli della propria fede è una reazione intransigente ed integralista, come quella che i maomettani hanno messo in campo ai tempi delle famose vignette. Castellucci risponde all’intervistatrice che gli domanda “perchè provocare proprio con l’immagine di Cristo” risponde, testuali parole: “«È difficile prescindere dal fiume in cui si è nati. Noi siamo nutriti dell´immagine di Cristo. E lo spettacolo è un “de profundis”, una preghiera sulla caduta dell´uomo che si leva dal punto più basso, da un nadir dell´uomo che ho voluto rappresentare metaforicamente con le finte feci. Ed è falso che vengono gettate contro il Cristo di Antonello da Messina, in fondo alla scena, perché a quel Cristo lo spettacolo rivolge la domanda accorata “perché ci hai abbandonato?” Non datemi dell’ingenuo, se sono arrivato fin qui è solo per il mio desiderio di capire, e di vagliare il buono là dove quasi tutti hanno ormai deciso (troppo sommariamente) che non c’è niente da salvare. Al culmine di questo mio delirante tentativo, spenderei l’analogia con quegli scarabocchiatori che imbrattano i muri di vernice a spruzzo, per lasciare traccia di sé, esattamente come gli animali maschi fanno spruzzando qua e là i loro liquidi fisiologici. Castellucci ha cinquant’anni, ma la sua opera è una chiara scimmiottatura di una crisi adolescenziale contro l’autorità, contro i valori che rappresentano quell’autorità, che si infrange deturpandoli. Ora, quei ragazzi se li consideri un problema sociale e li combatti sul loro stesso piano, ti sconfiggono sempre, perché a sporcare, rompere e incasinare si fa sempre molto prima (e costa molto meno ) che a pulire, a aggiustare, a rimettere a posto. Rifletterei sul fatto che costoro smettono, di solito, quando trovano qualcuno che li abbraccia (che siano le braccia forti e nodose di un padre o di un nonno, o quelle lisce e sottili di una ragazza poco importa) e che riesce a trasmettere il messaggio che loro sono molto di più, e valgono molto di più delle cose che con i loro atti deturpano e danneggiano. Castellucci, se lo trattiamo da adulto, ha già la sua macina da mulino attaccata al collo per tutti i semplici che con la sua opera scandalizzerà. Se invece prendiamo nel suo aspetto adolescenziale il grido profondo che l’adolescenza nasconde, la domanda “perchè ci hai abbandonati” dovrebbe farci fare un esame di coscienza, più che suscitare indignazione e risentimento. Però, vi prego, discutiamone con calma e con fede, senza dimenticare di pregare per i lontani.
Nota pubblicata su facebook il 10 gennaio 2012
Roberto Paludetto prende spunto da Sul concetto del volto del figlio di Dio di Romeo Castellucci che era andato in scena a gennaio 2012 al teatro Franco Parenti di Milano. Un episodio simile a quello delle “vignette” cui si allude nella Lettera, è stato il film L’innocenza dei mussulmani che a metà settembre ha scatenato un’ondata di proteste e indignazioni in tutto il mondo.
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