Mauro Leonardi – Per un padre con due figli
Un uomo aveva due figli.
Tra essi il padre fu spinto a dividere le sue sostanze.
Così essi separarono. La libertà dalla legge, la verità dalla libertà.
Il primo scelse la libertà senza la legge, il secondo la legge senza la libertà.
L’eterna contesa tra ordine e avventura si risolve solo nel cuore del Padre.
Dunque, un uomo aveva due figli.
Sono io quel padre.
È strano come gli uomini miei figli si concentrino sempre sul primo, su quello definito «prodigo». È strano che a proposito della parabola che mio Figlio ha loro raccontato si soffermino sempre sul primo: sembra quasi che faccia loro più paura la libertà senza la legge che la legge senza la libertà.
Io non la penso così.
Io, dice Dio, dico che sono due terribili malattie. So bene che cosa significa vivere al di fuori della verità. Significa essere infedeli, è l’infedeltà che significa. So bene che cosa significa vivere senza la legge. Significa mettersi al servizio dei porci: questo significa. So quali sono gli scherzi che gioca la libertà quando è lasciata sola: sono io che l’ho fatta.
Ma so anche, dice Dio, che cosa vuole dire la legge senza la libertà: è l’infelicità che significa. Sono io che ho fatto la legge: so che cosa vuol dire vivere solo di quella. Vuol dire che io, da padre, divento dittatore; è un giudice implacabile che divento agli occhi dei miei figli. La loro separazione costruisce due tombe diverse ma uguali nella desolazione, come due mezzi gusci di noce con lo stesso marcio gheriglio.
Eppure se proprio devo scegliere, dice Dio, scelgo il figlio piccolo, è quello prodigo che scelgo. Perché da quei sepolcri è con il pentimento che si esce. Ed è facile per il piccolo pentirsi: sa di che cosa dolersi, si pente dell’infedeltà. È un cosa chiara e tonda, non dà spazio a elucubrazioni. Si è andati via di casa: proprio per questo si può tornare.
Per il secondo è tutto complicato. Di che cosa dovrebbe pentirsi? Di essere rimasto a casa? Di aver compiuto sempre tutti i suoi doveri? Di non aver mai mangiato nessun capretto con gli amici?
È di non essere felice che dovrebbe pentirsi.
Di non essere libero.
Di non essere figlio.
(È proprio ciò che non sa fare).
Un uomo, dunque, aveva due figli.
Il primo, quello piccolino, questo bel moretto, è una storia conosciuta.
Non starò qui a raccontarla. È una storia di cui non c’è nulla da stupirsi. È così bella, così normale. Questo moretto è un bel peccatore (va da sé che gli uomini siano peccatori, non meraviglia affatto), sperpera tutto sopravvivendo una vita dissoluta (è così da uomini non credere al loro proprio cuore. Quando dice che ha bisogno di me. Che in ogni pozzanghera li trascinerà a cercarmi). Non è il piccolino che mi preoccupa, dice Dio.
E quelle donne non le voglio chiamare prostitute: le chiamerò dissolute, una vita dissoluta (è più dolce). Prostitute lo lascio dire a quell’altro, a quello grande. A quello che rimane a casa. Che non lo vuole chiamare fratello, che non mi chiama più padre (che mi preoccupa).
E così questo bell’ometto (che mi piace chiamare prodigo: con il nome di una virtù anche se parlo di un vizio) (perché i padri nei figli vedono solo virtù) (i padri sono madri) così questo bell’ometto non mi preoccupa. Non vale neppure la pena di raccontarli i suoi peccati.
Quello che vale la pena di raccontare è il suo bel pentimento, quel suo magnifico abbraccio. Al collo. Da coprire di baci.
Perché non c’è gioia più grande di quando un padre si sente chiamato così: padre, padre mio!
Di quando si sente chiamato così da un figlio che aveva smesso di chiamarlo, che aveva cessato di essere figlio. Che stava per morire. Praticamente era già morto.
Chiedete a un padre se il miglior momento non sia quando i suoi figli cominciano ad amarlo come uomini, liberamente, gratuitamente. Chiedetelo a un padre i cui figli stiano crescendo. Chiedete se non ci sia un momento segreto, un’ora segreta, e se non sia quando i suoi figli cominciano a trattarlo da uomo. Libero. Cominciano ad amare un libero da uomini liberi. Chiedetegli se non è vero che fra tutte le svolte della vita, quelle poche svolte, non più di tre o quattro, ce n’è una da preferire. E che questa preferenza, quest’elezione va precisamente all’istante in cui da parte del figlio avviene l’elezione. A favore del proprio padre. Quando la sottomissione cessa e inizia l’amore. (Mi leverò e andrò da mio padre. Mio padre). Quando lo trattano da conoscitori. Lo stimano così: liberamente. Da uomo a uomo. Chiedete a quel padre se non sa che nulla vale uno sguardo d’uomo che incontra uno sguardo d’uomo.
Da parte mia so bene che cosa significa. Sono io che sono Padre. So che cosa significa, quanto si soffre a tirarli grandi. A farli crescere. So quanto si pena, quanto si è tentati di metter loro la mano sotto la pancia per sostenerli, come un padre che insegna a suo figlio a nuotare nella corrente del fiume, nella corrente delle prove della vita. So che cosa significa sentirsi dire: dammi la parte che mi spetta, dividi la libertà dalla legge.
So che cosa significa sentirselo dire, e sapere che cosa succederà di lì a poco (E dopo non molti giorni, partì per un paese lontano. E là sperperò. Dissipò, si sprecò, si buttò via. Vivendo da dissoluto).
So quanto si è divisi. Perché da una parte se quando nuota lo si sostiene sempre, se lo si sostiene troppo, non imparerà mai. Ma se non lo si sostiene bene, al momento buono quel bambino si troverà ad affogare.
Questa è la difficoltà, la doppia faccia del problema. Che mi spinge ad aspettare sui tetti (si può dire che non faccio altro) (non faccio altro che aspettare il peccatore; che il peccatore confessi il suo peccato. Per poterglielo rimettere. Per poterlo abbracciare). Per questo quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro. Per questo mi commuovo, per questo è da lontano che lo scorgo. Che non gli accada di pentirsi doppiamente. Di pentirsi del pentimento. Che non gli accada di affogare a un palmo da riva.
Non è la storia della partenza che vale la pena ricordare, ma è quella del ritorno. È il suo pentimento, il suo abbraccio, quel magnifico gesto che vale la pena ricordare. Che esprime il mistero, il segreto, della libertà dell’uomo: come, in che forma, la libertà si unisce alla verità (Io sono la via la verità e la vita). Quando si è provato a essere amati liberamente, a essere amati da uomini liberi, allora la sottomissione non dice più nulla; il prosternarsi degli schiavi non dà nessun gusto.
Null’altro ha lo stesso valore, lo stesso peso di questo mio figlio piccolo.
Per questo è quello grande che mi preoccupa. È la sua mancanza di filiazione e di fraternità che mi preoccupa. La sua mancanza di filiazione e perciò la sua mancanza di fraternità.
Come gli è venuto in mente di chiamare mio figlio suo fratello (questo tuo figlio). È come quando in famiglia si litiga, come quando una madre arrabbiata con il figlio (ma è al marito che è rivolta; rivolge la sua ira verso il padre di quel suo figlio), dice al marito (al padre di quel loro figlio): guarda tuo figlio, guarda che cosa ha combinato!
Non è così che ci si tratta in famiglia. Non nella mia. Nella mia c’è un padre (e sono io) con tutti i suoi figli (che sono gli uomini, e sono tutti fratelli perché sono tutti miei figli).
Quello che mi preoccupa è che questo mio figlio giudica l’altro; lo giudica con sdegno. Mi pare di sentirlo: ha divorato i tuoi averi con le prostitute! E si sbaglia (chi giudica sbaglia sempre). Oltretutto sbaglia perché quegli averi erano diventati suoi. Non sono più miei. Glieli avevo regalati (è la sua libertà). E pure con le prostitute: preferirei dicesse altrimenti. Preferirei parlasse di vita dissoluta. (È cosa finita. Si è pentito. Non parliamone più. Voltiamo pagina).
Quello piccolo non mi preoccupa perché ripone la sua speranza in me (sa che io la ripongo in lui). E anche se non si sente all’altezza di essermi figlio (non sono più degno di essere chiamato tuo figlio), pure mi chiama Padre (gli sfugge detta la realtà, gli schiude le labbra la verità. È allora che in lui la verità torna a unirsi alla libertà. È in quell’esatto istante). Per come si giudica, si giudicherebbe servo; ma per come spero in lui, per come ho riposto in lui la mia speranza, mi chiama padre.
È quell’altro che mi preoccupa. Non mi chiama mai padre (nemmeno chiama mai fratello il fratello). Il piccolo si giudicherebbe servo, ma parla col padre (parla da figlio); il grande parla coi servi (chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò); perfino quando essi lo giudicano figlio (è di tuo fratello che si tratta; è di tuo padre che si tratta; è la vostra festa), egli si considera servo. Quando gli parlo da padre (il padre uscì a pregarlo) mi risponde da servo (io ti servo da tanti anni; è da tanti anni che ti sono servo). Con una trattativa in corso, una rivendicazione, un salario troppo basso (neppure un capretto).
È quello grande che mi preoccupa. Per venirgli incontro, all’inizio l’ho perfino garantito #messa# sul piano della giustizia: quel che è mio è tuo, gli ho detto. Perché è così, la parte di sostanza che è rimasta è tutta sua, il fratello piccolo ha già avuto il suo e non dovrà fare di nuovo a metà con lui. Insomma il maggiore aveva paura che il ritorno del fratello gli togliesse dalle mani della roba. Che io dividessi ancora facendolo rimanere con la metà della metà. Aveva negli occhi una domanda inquieta. Se rimango con il venticinque per cento di tutto non iniziamo neanche a parlare, sembrava mi dicesse.
Allora l’ho rassicurato. Figlio, quel che è mio è tuo, gli ho detto. Quello che è rimasto dell’eredità dopo che l’altro se n’era andato, tutto quello che rimane, è tuo. Te l’ho già detto, non avere paura. Non farò di nuovo a metà. La mia misericordia supera la giustizia senza infrangerla. Ti spetta la metà dell’intero che c’era all’inizio. Non si torna indietro. Quel che è mio è tuo. Stai tranquillo. Sono io il garante della giustizia. Fare giustizia è il mio lavoro. Se tu credi a me e lo perdoni, ci penso io a trovare quella misura alta che accorda tutti.
Si è rasserenato un po’, ma non del tutto. Avrei voluto dirgli: figlio, è di tuo fratello che si tratta. Figlio, la tua ricompensa sono io: tu dimori in me e io dimoro in te. Figlio non sai che cosa ti sei perso in tutti questi anni: è quell’intimità, quella vita interiore che hai con il tuo Dio, che ti sei perso.
È quello grande che mi preoccupa. Credo che tutto origini da un fraintendimento, da un errore: dal fatto che, per essere il maggiore, crede di essere grande. Adulto. Uno che sa il fatto suo. Che per il fatto di adempiere (non ho mai trasgredito un tuo comando) ha capito tutto.
E invece non ha capito nulla. Non ha capito la cosa più importante. Che è mio figlio. E io gli sono padre.
In fin dei conti sto dicendo una cosa molto semplice: l’uomo che si abbandona in me (che mi è figlio) mi piace. E l’altro uomo, quello che non si abbandona, non mi piace.
Eppure. Eppure. Quello che ho ottenuto dal piccolo, dal grande non riesco a ottenerlo. Che abbia un po’ di fiducia, che speri in me (io confido tanto in lui). Che la smetta di voler fare il mio mestiere. Che lasci a me di essere Padre (è in questa parola non detta dove non si toccano. È lì, è in quella vacuità, in quel non dire, in quel non esclamare – Padre! – dove legge e libertà si elidono, si sfuggono. Sono due straniere in lite). Che cessi di voler fare il mio lavoro, che è quello di essergli Dio, di essergli Padre. Di volergli bene.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Fa certi orari; certe levatacce e certi straordinari. Che lo fanno arrivare sempre tardi. Alla danza, alla festa (alla Messa, alla preghiera, al riposo). Al ritorno – era tardi, era sera, era già passato il tramonto –udì la musica e le danze; chiamò un servo (mi fa sempre lo stesso: tratta con i servi; è un servo che si considera; non chiama me, chiama il servo. Il piccolo mi chiama padre e il grande invece è come se avesse paura di disturbarmi. Di disturbare il padrone) e gli domandò cosa fosse tutto ciò. Sta a casa sua, ma non sa che cosa succede a casa sua. È proprio quello che mio Figlio ha spiegato così bene durante la sua ultima cena: non vi chiamo servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone. Ma il mio figlio grande non porta i suoi amici a casa mia. Non me li fa conoscere. E si lamenta perché non gli do il capretto per stare con i suoi amici. E quando è a casa, a casa non è. Anche a casa è sempre fuori.Si alza presto e va a letto tardi. E quando è a letto non dorme. Pensa, progetta il domani. Non pensa che suo padre sa fare i conti di casa forse un po’ meglio di lui (che diversità con il piccolino. Il minore pensava: a casa di mio padre, lì sì che c’è pane in abbondanza) (lì sì!, mio Padre sa fare bene i conti) (è a quel pensiero che smette la sua vita dissoluta).
Delle volte mi sembra quasi di non saperlo prendere. Sono tanto abituato a trattare con dei figli (con uomini liberi), che con gli schiavi ho dei problemi. Ho certi problemi.
È allora che ho pensato (sorride Dio, ride compiaciuto) (è fiero della sua pensata) (si spalanca tutto il cielo di paradiso in un grande, eterno sorriso), ho pensato: visto che ha dei problemi con il padre, gli darò una madre. Sarà la Madre a saperlo prendere (Figlio, ecco tua Madre).
Lei riuscirà a ottenere che la notte dorma, che dica le preghiere e dorma, che il tempo della notte sia – infine! – un tempo notturno. Che smetta di contare; che si ricordi della parabola di mio Figlio (che questo figlio sia un po’ più come mio Figlio). Che si ricordi della parabola del buon grano e della zizzania, della gramigna. Lei spiegherà a questo figlio (che vuole fare il servo mercenario) che non vale la pena stare a contare e a ricontare, a conteggiare a partita doppia i propri peccati e le proprie azioni. Gli spiegherà che quello che si conta è il buon grano, le buone azioni; è con il buon grano che si fanno i covoni.
Ma poi gli spiegherà che pure questo lavoro deve lasciarlo fare a me: è il mio mestiere. Sono io che semino (uscì il seminatore a seminare), sono io che raccolgo. E con la gramigna non si fanno covoni; e la zizzania la si brucia. (Che caricatura d’imitazione, che goffa parodia; mi vuole imitare, vuol fare il mio lavoro, e si sbaglia: conta e riconta le cose fatte male, quelle andate a male, le cose a suo danno). (E non mi ringrazia di tutte quelle andate bene).
Lei lo accarezzerà, e lo convincerà che deve lasciare a me il mestiere di Padre. Che le buone opere (il buon grano) non le deve contare: sono io, suo Padre, che ne terrò conto. Non si preoccupi: faccio tanti bei covoni (ne tengo conto molto meglio di quanto pensi, di quanto possa mai immaginare di saper computare). E per ciò che si riferisce alla zizzania, beh, è molto semplice: basta pentirsene. Non servono i registri. Pentirsi e confessarsi. Non si fanno covoni con la zizzania, la zizzania si brucia. Col fuoco del perdono. È la zizzania stessa che lo chiama su di sé. Che chiede su di sé il fuoco. Sono intrinsecamente collegati: è il bene che si conserva, e non il male. La zizzania si brucia con il fuoco del dolore, del pentimento. Della confessione.
Tu, o Madre, riuscirai a far sì che quello sciocco mi divenga figlio. Riuscirai a tenerlo nelle tue braccia come un lattante che ride. Che vede il mondo negli occhi di sua madre. Che non vede e non guarda che in essi.
Tratto da “Mezz’ora di orazione” pp. 86-95