
Mauro Leonardi – Harry Potter e la vocazione
Vorrei regalare al blog alcune parole che ho scritto sulla vocazione. Sono una silloge presa da Come Gesù (pp. 241-248)
La domanda che spesso mi sento rivolgere suona più o meno così: «Voglio fare la volontà di Dio ma non so che cosa Dio si attenda da me, e allora sono venuto da lei per farmi aiutare a non sbagliare». La risposta che io darei è più o meno la seguente: «Dio non vuole da te che tu segua un programma prestabilito, ma vuole far nascere in te una fedeltà feconda a quel tu che Lui ti rivolge e che tu, e solo tu, sei e conosci. Questo è quello che io intendo per comprensione della propria vocazione». In altre parole, capire la propria vocazione è conoscere la continuità della propria vita, è cioè uno sviluppo della propria esistenza radicato nella tradizione della propria esistenza. E tale passo in avanti di comprensione non è solo un viaggio nella propria profondità ma anche nella propria estensione, è cioè il comprendersi in una famiglia, in una compagnia, in un popolo, in una comunità nella quale siamo e viviamo.
Spesso la domanda sulla propria vocazione viene anche formulata in un altro modo. «Qual è la mia strada? Come faccio a capire il mio cammino?» La metafora della vocazione come cammino (via, strada),così tradizionale e così utile per tanti versi, ha il limite di trasmettere l’idea che la vocazione sia qualcosa che esista esternamente a chi si interroga. Sono in vacanza in montagna, questa mattina voglio fare una passeggiata, scelgo una meta, guardo la cartina: seguirò il sentiero della Val Viola.
Come è evidente, il sentiero della Val Viola c’è anche se io non lo scelgo.
In questo senso, la mia vocazione non è il sentiero della Val Viola, e quindi «capire» la mia vocazione non è semplicemente verificare, seppure con l’aiuto di una guida esperta (il direttore spirituale o chi per lui) se il sentiero della Val Viola è adatto alle mie aspettative, o se io sono adatto per fare quel certo sentiero. Le domande che bisogna rivolgersi per capire la propria vocazione non riguardano (fondamentalmente) il tipo di panorama che vedrò, la lunghezza della passeggiata, se con la mia pressione arteriosa posso o no salire oltre una certa quota: in un secondo momento queste domande ci saranno, ma non sono quelle dell’inizio. Partire da lì, non è partire con il piede giusto.
Il limite principale dell’immagine della via è che essa contiene un’inadeguata nozione di libertà. In pratica la libertà a cui ci si riferisce nella metafora del sentiero è semplicemente quella di decidere se cominciare o non cominciare e, una volta cominciato, se proseguire, arrestarsi o tornare indietro. Ma quest’idea di libertà, anche se utile per certi versi, è troppo misera per un essere umano perché nell’uomo il senso ultimo della libertà sta nell’amore: la libertà è la condizione previa dell’amare, del donarsi.
La tradizione cassidica narra che non molto tempo prima di morire il Rabbino Susya dicesse: «Quando arriverò in cielo, Jahvè non mi chiederà “Susya, perché non sei stato
Moshé?”, no, mi chiederà: “Susya perché non sei stato Susya?”». Per Susya il suo nome è l’invito a por mano al compito della sua vita, e quell’invito gli è stato rivolto da Dio. Ecco perché «la vocazione accende in noi una luce che ci fa riconoscere il senso della nostra esistenza. La vocazione ci convince, con la luminosità della fede, del perché della nostra realtà terrena.
La risposta che io devo dare alla persona che mi interpella è: guarda alla tua storia e vedila come la storia di Cristo in te. Dio Padre vuole che la tua vita sia una fecondità fedele a te stesso, alla parte più intima e vera di te: la volontà del Padre è che «portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv15, 16). La domanda che tu mi rivolgi «come faccio a capire qual è la mia vocazione?» è una domanda che fiorisce adesso sulle tue labbra, ma tu non cominci a vivere adesso, tu hai una storia, sei una storia. Se isoli la tua domanda dalla tua storia, dal contesto della tua vita, è molto probabile che ti sarà impossibile trovare risposta alla tua domanda.
Puoi trovare la risposta solo se leggi sinceramente la vita che finora hai vissuto, e se non ritieni insignificante quello che finora in essa vi è accaduto.
In fin dei conti quella storia di cui non tieni conto, ti ha portato a chiederti quale sia la tua vocazione. È vero, forse buona parte della vita che hai vissuto finora l’hai vissuta inconsapevolmente, ma poi hai cominciato a capire qualcosa di più di te stesso.
Hai cominciato a fare delle scelte. Certo, sono state scelte limitate, perché noi siamo esseri limitati, eppure, nei limiti delle tue possibilità, tu hai fatto delle scelte.
Guarda a esse: è in quegli snodi dove tu ci sei di più. Harry Potter non ha potuto scegliere se essere mago e andare a Hogwarts, come tu non hai scelto se essere maschio o femmina e se vivere in una certa famiglia, ma non è intelligente dire a te stesso che sei semplicemente un prodotto dell’ereditarietà e dell’ambiente.
È molto meglio riconoscere che ereditarietà e ambiente sono stati gli strumenti usati da Dio per chiamarti. È stato Harry a scegliere di appartenere alla casa dei Grifondoro e
non a quella dei Serpeverde e il Cappello Parlante che, narrativamente parlando ha il compito di illustrare al lettore che entrambe le scelte erano possibili, asseconda la sua
elezione: la storia dice sì al suo protagonista. Qual è il motivo della decisione di Harry? La semplice libertà di preferire l’amicizia di Ron e di Hermione a quella di Draco Malfoy. E questo lo ha fatto da solo, autonomamente, senza il consiglio di nessuno. È a scelte così che devi pensare. Rifletti lealmente su quei momenti. Prega su quei momenti di snodo. E questo significa: fatti aiutare da tuo Padre Dio per far sì che quei momenti siano il più possibile scevri di egoismo e di paura. Fallo adesso. Fa un po’ anche tu come Harry Potter con indosso il Cappello Parlante.